La scarcerazione di Franco Perna, memorie di una città ferita
Gli omicidi di Sergio Cosmai e Filippo Salsone nel solco di una sanguinosa faida: il passato di sangue che torna a galla

COSENZA La recente scarcerazione di Franco Perna ha riaperto i cassetti della memoria e rispolverato dagli archivi storie e fatti di sangue appartenuti ad un passato ormai lontano. Il boss cosentino, oggi 84enne e in condizioni di salute precarie (per questo motivo sono stati accordati gli arresti domiciliari) è stato simbolo della trasformazione della mala bruzia, da “bastarda” a confederata. Ritrova un pizzico di libertà dopo oltre trent’anni trascorsi in una cella, molti dei quali costretto al carcere duro. Stava scontando due condanne all’ergastolo per altrettanti omicidi: Armando Bevacqua nel 1979 e Sergio Comai nel 1985.
Sangue, proiettili e morti ammazzati
Perna ha vissuto il periodo nero delle sanguinose faide, quella dei morti ammazzati per strada, del sangue e dei proiettili, della lotta per il controllo del territorio e dei business illeciti, salvo poi concedersi una tregua firmando il patto con il clan rivale Pino-Sena. Nel mezzo gli omicidi, appunto, come quello di Sergio Cosmai. Quarant’anni fa, a Cosenza si sparava. In un clima di tensione e scontri, si inserisce il delitto del direttore del carcere bruzio assassinato il 12 marzo del 1985 mentre andava a prendere a scuola sua figlia. Le lancette dell’orologio scorrono impietose e quella bimba non vede arrivare il papà, è smarrita, ha solo due anni. Una maestra le tiene la manina e riempie l’attesa fino all’arrivo di due poliziotti che annunciano la tragedia: un commando di killer ha ucciso Cosmai. Un omicidio deciso dal boss Franco Perna, condannato all’ergastolo e mai pentitosi, deciso a dimostrare di essere il capo e di non accettare il rifiuto di Cosmai di piegarsi alla sua volontà.
Tiziana Palazzo (moglie di Cosmai), a casa, non sa nulla: saranno dopo alcuni poliziotti ad informarla dell’accaduto. Intanto l’ambulanza con a bordo il corpo del direttore dell’istituto penitenziario che oggi porta il suo nome corre verso Trani, morirà in Puglia dove si celebrerà il processo sulla sua morte.
La rivalità tra clan
La morte di Cosmai aveva permesso al clan Perna di mostrare i muscoli. Il sodalizio rivale, “Pino-Sena“, non poteva rimanere fermo e decise la morte del collaboratore del direttore del carcere, il maresciallo Filippo Salsone. Il 7 febbraio del 1986, dal secondo piano di un palazzo in costruzione, a una trentina di metri da casa Salsone, partono una serie di colpi di arma da fuoco. Il maresciallo 43enne viene colpito a morte. Il commando, in quell’occasione conclude con successo il progetto omicidiario lontano da Cosenza, a Brancaleone dove Salsone si reca insieme al figlio (rimasto ferito nell’agguato) per andare a trovare i genitori. Franco Pino, anni dopo, si autoaccusa di essere il mandante di quell’omicidio, asserendo di aver “armato” alcuni soggetti di Africo. Poi il vuoto e l’attesa di giustizia.
La testimonianza di Domenico Mammolenti
Sui motivi che spinsero Perna ad ordinare l’omicidio del carcere di Cosenza, giova ricordare il racconto fornito al Corriere della Calabria da Domenico Mammolenti, negli anni ’80 stretto collaboratore di Cosmai. «L’ultima volta che l’ho visto – racconta – è stata la sera prima dell’agguato mortale. I boss in carcere erano abituati a comandare. Cosmai si mise subito di traverso per contrastare la loro arroganza che andava a discapito dei detenuti più deboli. Ad esempio, quando si dovevano assegnare i detenuti per i lavori da svolgere quotidianamente, il boss sceglieva i suoi uomini per fargli guadagnare qualche soldo in più. Cosmai bloccò questa consuetudine dando il lavoro a chi effettivamente ne aveva bisogno per aiutare a casa le famiglie. Insomma, con lui al vertice della struttura si acuì lo scontro tra il potere criminale e il potere dello Stato». (f.benincasa@corrierecal.it)
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