COSENZA Sergio Cosmai è l’unico direttore di carcere ucciso in Italia, punito per aver contrastato il potere dei clan cosentini all’interno delle carceri di Cosenza. L’omicidio avviene il 12 marzo 1985, mentre il direttore del carcere stava andando a prendere la figlia a scuola. Amante della filosofia, era un intellettuale, non era un reazionario, visse l’antagonismo all’interno del carcere in maniera dura. Un anno fa, “Cose Nostre”: il programma su Rai1 ha dedicato al direttore scomparso la puntata “Per un’ora d’aria”. Dalla trasmissione, che ha intervistato anche l’ex procuratore di Cosenza Mario Spagnuolo, sono emersi dettagli inquietanti. Spagnuolo – dice davanti le telecamere – che quando arriva a Catanzaro apprende dell’esistenza di una sorta di stanza con tutte le carte, i faldoni delle deposizioni dei pentiti che ricostruivano anni di storia criminale che qualcuno aveva ignorato». Aspetto dal qual deriva un interrogativo: «Chi furono quei magistrati che tennero intonsa questa stanza con le carte della criminalità cosentina e che non si volevano andare a vedere e risolvere?».
«Secondo me Sergio Cosmai ha avuto giustizia in parte. Io sono molto grata a coloro che hanno risolto questo caso che era destinato a rimanere senza responsabili, ma abbiamo dovuto aspettare 28 anni prima di arrivare a una giustizia tardiva, quindi io credo che il dottor Cosmai avrebbe avuto giustizia se la legge avesse fatto il suo corso dall’inizio». Sono le parole della professoressa Tiziana Palazzo, vedova di Sergio Cosmai, a “Cose Nostre”.
Al Corriere della Calabria aveva parlato Domenico Mammolenti, negli anni ’80 stretto collaboratore del direttore del carcere ucciso dalla ‘ndrangheta. «L’ultima volta che l’ho visto – ci racconta – è stata la sera prima dell’agguato mortale. Ricordo che stavo facendo gli straordinari, abbiamo chiuso insieme l’ufficio e ci siamo salutati dandoci appuntamento all’indomani, dopo la sua missione nel carcere di Vibo Valentia. Era sereno, tranquillo, oppure era bravo a non lasciar trasparire alcuna preoccupazione. Ciò che accaduto non se lo aspettava nessuno, lui per primo».
Mammolenti ricorda «i boss abituati da sempre a comandare. Cosmai gli si mise subito di traverso per contrastare la loro arroganza che andava a discapito dei detenuti più deboli. Ad esempio, quando si dovevano assegnare i detenuti per i lavori da svolgere quotidianamente, il boss sceglieva i suoi uomini per fargli guadagnare qualche soldo in più. Cosmai bloccò questa consuetudine dando il lavoro a chi effettivamente ne aveva bisogno per aiutare a casa le famiglie. Insomma, con lui al vertice della struttura si acuì lo scontro tra il potere criminale e il potere dello Stato». (f.benincasa@corrierecal.it)
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