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Le donne e il potere invisibile della ‘ndrangheta

La recente condanna in primo grado di Rosita Grande Aracri ha confermato come le figure femminili, rispetto al passato, possano assumere funzioni di collegamento e gestione

Pubblicato il: 25/11/2025 – 18:58
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Le donne e il potere invisibile della ‘ndrangheta

La condanna a sette anni e due mesi di reclusione pronunciata lo scorso 14 ottobre 2025 dal Gup del Tribunale di Bologna nei confronti di Rosita Grande Aracri, 42 anni, rappresenta un nuovo capitolo nel complesso rapporto tra femminilità e potere criminale. La sentenza (di primo grado e non definitiva) è stata emessa nell’ambito di un procedimento della Direzione Distrettuale Antimafia bolognese e si inserisce in una lunga scia di indagini sui clan di matrice calabrese radicati in Emilia-Romagna.
Secondo la ricostruzione dei magistrati, l’imputata avrebbe mantenuto contatti e gestito alcune attività economiche riconducibili al contesto familiare, contribuendo – secondo l’accusa – alla continuità del sodalizio criminale durante le detenzioni dei vertici. La difesa, al contrario, ha sostenuto che le sue azioni si limitassero alla gestione di società civili, senza consapevolezza di finalità mafiose.
Il contrasto tra queste due letture restituisce un quadro emblematico: nelle organizzazioni mafiose, la linea tra appartenenza familiare e partecipazione associativa è sempre più sottile, soprattutto quando a operare sono donne.

Dalla subalternità all’operatività

Per decenni le donne di ’ndrangheta sono state raccontate come figure di contorno, custodi dei segreti domestici e simboli di un’onorabilità da difendere più che soggetti attivi nelle dinamiche criminali. Oggi, però, i processi mostrano una realtà più sfaccettata: le donne non sono più solo garanti della tradizione, ma ingranaggi consapevoli del sistema di potere.
In molti casi, hanno assunto ruoli di intermediazione, amministrazione o collegamento con i circuiti economici. Ciò avviene soprattutto nel Nord Italia, dove la mafia si muove attraverso società di comodo, cantieri, cooperative e apparati finanziari.

Il caso emiliano e la nuova geografia femminile della mafia

L’Emilia-Romagna è diventata negli ultimi quindici anni un laboratorio di osservazione della ’ndrangheta moderna, che qui ha saputo intrecciare il potere economico con la legalità apparente. È proprio in questo contesto che cresce la presenza femminile nei procedimenti giudiziari.
Molte imputate non provengono dalla tradizione calabrese, ma da contesti sociali e culturali diversi. È il caso, ad esempio, di Karima Baachaoui, cittadina tunisina legata a un esponente della criminalità reggiana e tuttora irreperibile dopo un provvedimento di custodia cautelare; oppure della bolognese Roberta Tattini, condannata per concorso esterno in associazione mafiosa in relazione alle attività economiche del clan. Entrambe sono state indicate dagli inquirenti come esempi di una nuova tipologia di coinvolgimento femminile: donne istruite, autonome, competenti sul piano finanziario, capaci di muoversi tra imprese, contabilità e investimenti.
Anche Giuseppina Mauro ed Elisabetta Grande Aracri, rispettivamente moglie e figlia del capoclan Francesco Grande Aracri, sono state condannate (in un altro procedimento, “Farmabusiness”) per reati di associazione mafiosa, con l’accusa di aver sostenuto la struttura familiare durante la detenzione del marito e padre. Un ruolo, secondo la giurista Federica Iandolo nel saggio Madrine di ’ndrangheta (Aliberti), che segnala il passaggio da una presenza femminile “di necessità” a una presenza gestionale, talvolta consapevole, ma pur sempre inserita in un quadro di subalternità culturale.

Potere delegato, non conquistato

La trasformazione in atto non implica una reale emancipazione. Spesso il potere esercitato dalle donne resta un potere riflesso, assegnato dai vertici maschili e limitato alla sfera gestionale o relazionale. Molte continuano a muoversi entro un sistema patriarcale che le riconosce come garanti della continuità familiare, ma non come protagoniste autonome.
Fino a pochi anni fa, molte di queste presenze passavano inosservate; oggi, la giurisprudenza e la sociologia riconoscono che il volto femminile della criminalità organizzata non è eccezione, ma parte integrante della sua evoluzione.
Come evidenzia sempre Federica Iandolo nel suo saggio, la crescita del numero di donne imputate in Emilia non indica soltanto un aumento del coinvolgimento, ma un cambio di sguardo: la consapevolezza che, anche dietro le strutture apparentemente maschili della mafia, agiscono competenze, mediazioni e strategie femminili. (f.v.)

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