Cosenza calcio, Buscè e quel “tutti” che pesa come un macigno
Il tecnico forse ha compreso le ragioni profonde della protesta della città. Probabilmente ha capito che il vero ostacolo per puntare in alto non è fuori dallo stadio

COSENZA C’è un momento, nel calcio come nella vita, in cui le parole non servono più per spiegare: servono per certificare. Antonio Buscè, dopo la vittoria contro il Picerno di domenica scorsa, ha fatto esattamente questo. Non ha acceso veri e propri incendi, non ha accusato apertamente nessuno – sarebbe ingenuo anche solo pensarlo, visto il suo ruolo – ma ha lasciato cadere sul tavolo un termine semplice, quasi innocuo, che ha però il peso specifico di una verità scomoda: ”tutti”. «Mi riferisco a tutti», ha detto. Ed è bastato per spaccare ancora una volta la città in due: chi ci ha visto una stilettata alla società, chi un affondo laterale anche verso piazza e informazione critica. La solita dialettica da dopopartita cosentina, fatta più di sospetti che di sostanza. Ma qui la sostanza, per una volta, c’è eccome. Perché se un allenatore dipendente del club arriva a parlare di gruppo «mentalmente cotto», di un lavoro «logorante» e di «problemi veri di organico», è evidente che non siamo di fronte alla solita lamentela tecnica. È un messaggio. Anzi: una denuncia educata.
La verità dietro il paravento del “politicamente corretto”
Che Buscè non possa – e non voglia – puntare apertamente il dito contro chi lo paga è ovvio (probabilmente nei prossimi giorni dirà che il suo bersaglio non era uno solo). Ma è altrettanto ovvio che il suo “tutti” aveva un destinatario ben preciso: quella proprietà che pretende più di quanto investa, e che si ostina a raccontare una realtà che non esiste, o che forse esiste solo nelle sue stanze insonorizzate. Il paradosso è che in quel “tutti”, inevitabilmente, finiscono anche i tifosi e i giornalisti che non si allineano al racconto del va tutto bene. Non perché Buscè ce l’avesse apertamente con loro, ma perché sa – da uomo di calcio – che “qualcuno” pretende miracoli tecnici mentre la protesta sui gradoni del San Vito-Marulla resta solida.
Ma l’analisi vera, però, va oltre il significato delle parole. È lo scenario a essere eloquente: un club scollato dal suo popolo, una squadra che lotta oltremisura, un allenatore sempre più nervoso (nonostante stia facendo bene) che cerca aiuto e riceve eco, e una proprietà che procede come se nulla fosse mentre intorno crollano consensi, fiducia e presenze allo stadio. Il Cosenza oggi è questo: una squadra che onora la maglia e viene rispettata dalla tifoseria, una città che soffre, un club che finge di non vedere. E Buscè è finito al centro di un paradosso tutto bruzio: forse, finalmente, dopo cinque mesi nel Cosenza di Guarascio, ha compreso le ragioni profonde della protesta, quelle che all’inizio sottovalutava, ma ha compreso ancor di più che il vero ostacolo per puntare in alto non è fuori dallo stadio, ma dentro la quotidianità societaria. Perché il “fuoco amico”, quello sì, brucia più del resto.
Il caso Longobardi e l’abisso tra pretese e realtà
Basterebbe il “piccolo” caso Longobardi per descrivere la situazione: un giocatore conosciuto dal tecnico, utile, individuato, preso… dagli altri. La Salernitana lo porta via in tempo record, mentre il Cosenza resta lì, impantanato nella sua lentezza cronica, nella sua indifferenza programmatica. Buscè voleva un segnale. Ha ricevuto un promemoria: non illuderti. Ed è forse in quel momento che il tecnico ha realizzato che tra ciò che si pretende e ciò che realmente ha a disposizione non c’è una distanza: c’è un abisso.
Il contorno è da romanzo distopico: uno stadio deserto, conferenze stampa svuotate dai cronisti, una piazza che non attacca squadra e allenatore, ma solo la società. Un club che parla pochissimo (se si esclude il direttore generale Gualtieri, trasformato suo malgrado in parafulmine ambulante) e che non offre uno straccio di prospettiva. Un club che sembra voler solo tirare a campare, come se non fosse proprio lui il principale responsabile dello sfollamento emozionale che sta vivendo il calcio cosentino.
Il significato ultimo di quel “tutti”
E allora sì, quel “tutti” è più chiaro oggi che mai. Non è una condanna. Non è un attacco. È una fotografia. Buscè ha certificato ciò che tanti a Cosenza sanno da mesi, da anni: che la rottura tra città e proprietà è ormai profonda, strutturale. Che la squadra è sola. Che lui è solo. Che la città è sfinita.
Forse Buscè non voleva provocare un terremoto. Ma un terremoto, inevitabilmente, c’è stato. Perché quando un allenatore si lascia scappare un «tutti» dopo mesi di pensieri e dichiarazioni difensivi e contrastanti, significa che la misura non è colma: è straripata. E a Cosenza, ormai, lo straripamento è l’unica cosa che funziona alla perfezione. (f.veltri@corrierecal.it)
Foto Cosenza calcio
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