Perché la mano pesante sul giudice Giglio?
Com’era avvenuto con altre operazioni di giustizia, anche quella della Boccassini, denominata “Infinito”, nome che sta a significare che alla stessa operazione ne potranno seguire altre, in un cresce…

Com’era avvenuto con altre operazioni di giustizia, anche quella della Boccassini, denominata “Infinito”, nome che sta a significare che alla stessa operazione ne potranno seguire altre, in un crescendo rossiniano, ha puntato alla spettacolarità fidando nel sostegno e nell’amplificazione della stampa, che per natura è sostanzialmente colpevolista, e nel sostegno di quella parte politica che, innaturalmente, ha scelto di cavalcare il giustizialismo, sperando in improbabili ricadute politiche.
Con l’operazione, sviluppata dalla signora Boccassini, ormai assurta a temibile primadonna del colpevolismo, è stato presentato, all’opinione pubblica, un quadro accusatorio che poteva sembrare inattaccabile almeno quello riferito al giudice Vincenzo Giglio. Fermo restando che l’operazione, vivendo in uno stato democratico, andrà al vaglio della magistratura giudicante, si possono però già ora avanzare delle perplessità almeno sulla scelta di usare la mano pesante su un componente, non chiacchierato, della magistratura reggina.
Ma andiamo per ordine. In pasto alle tricoteuses reggine è stato consegnato un giudice dalla doppia personalità. Una specie di dottor Jekill e Mr. Hyde che di giorno fustigava i malavitosi e di notte trescava con loro. Si disse che aveva tradito il giuramento di fedeltà ai principi di legalità, che aveva passato informazioni riservate a presunti “capi” mafia, e che aveva favorito la loro attività. E a supporto di cotanto corposo dossier d’accusa avevano presentato rapporti di polizia che “certificavano” ben 5 visite a casa sua di presunti faccendieri e di un “capomafia”.
La versione, a difesa, presentata dallo stesso magistrato, arrestato come comune delinquente, e tradotto nelle patrie galere, produce tutt’altro scenario. Il dottor Giglio non era in possesso della password che permetteva di accedere alle notizie riservate, oggetto del procedimento, e comunque “l’entrata nel sistema informatico avrebbe lasciato tracce facilmente accertabili”. Anche le cinque visite “certificate” dalla polizia a casa propria, secondo la difesa del giudice, erano state solo due e, comunque, erano incontri elettorali con la moglie. In una di queste era presente anche un consigliere regionale. La moglie, essendo di una famiglia altolocata, era oggetto di attenzione dei candidati tesi ad assicurarsi il suo sostegno.
Saranno i giudici a dirimere la faccenda, ma resta l’amaro in bocca nel constatare che non ci si è fatto scrupolo ad usare la mano pesante senza “controllare” prima se le cose stavano come oggi dichiarato dalla difesa del dottor Giglio o come “certificato” dalla polizia. E la cosa è ancora più grave se si pensa che il danno causato è enorme sia nel caso di colpevolezza del magistrato, ma anche nel caso contrario. Perché ad uscirne massacrato non è solo il presidente della Corte d’assise e della Sezione per le misure di prevenzione, ma il sistema giustizia nel suo complesso.
Espressi subito le mie perplessità sulla vicenda con un pezzo dal titolo “Separare, se c’è, il grano dal loglio”, non solo per la mia formazione garantista che mi fa andare con i piedi di piombo, ma perché, anche a Reggio, ne abbiamo viste tante, ma veramente tante, inclusi gli arresti di altro presidente di tribunale (poi pienamente assolto e reintegrato nell’ordine), che prima di gridare “al ladro, al ladro” contiamo sempre fino ad oltre cento.
Nel contare, comunque, ci facciamo sempre la domanda del perché. Oggi, come ieri, la Procura di Reggio Calabria è scossa da lotte interne senza esclusione di colpi. Ieri si fronteggiavano quelli del “nuovo corso” e la vecchia guardia, oggi, pur cambiando i soggetti, ci troviamo nello stesso scenario, per cui domandarsi se Giglio viene “stritolato” nell’ambito di questa guerra, è il minimo che possiamo fare.