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«Ieri come oggi, a Reggio la democrazia sembra sospesa»

“Reggio ferma agli anni 70 o volano di sviluppo per l`intera Regione?”: è stato questo il tema di un incontro organizzato dalla federazione del Psi della provincia di Reggio, che si è svolto in riva…

Pubblicato il: 22/06/2012 – 20:02
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«Ieri come oggi, a Reggio la democrazia sembra sospesa»

“Reggio ferma agli anni 70 o volano di sviluppo per l`intera Regione?”: è stato questo il tema di un incontro organizzato dalla federazione del Psi della provincia di Reggio, che si è svolto in riva allo Stretto. I lavori, moderati dal giornalista Rai, Pietro Melia, sono stati introdotti dall`avvocato Gianpaolo Catanzariti, componente della segreteria provinciale. Il tema è stato approfondito dal giornalista della Stampa Guido Ruotolo. Di seguito riportiamo il suo intervento nella versione integrale.

Questa rivolta per Reggio capoluogo trovò impreparati tutti perché nacque spontanea e si propagò a macchia d’olio coinvolgendo tutti i ceti sociali. La destra prese il sopravvento e lo Stato democratico mandò i carri armati come se la forza fosse indice di democrazia. I politici del tempo, quasi tutti, si dimostrarono inetti e arroganti: alle prime elezioni si accorsero di aver perso voti e potere perché la mafia appoggiava la rivolta.
Io di quella stagione ho un bel ricordo. Ero un giovane studente liceale e quella notte presi da Napoli uno dei treni per Reggio Calabria. Era il 22 ottobre del 1972, avevo 17 anni e allora la politica e la curiosità per quello che accadeva attorno a noi, nel mondo, erano un sentire comune delle nuove generazioni. Ero in una carrozza dei ferrovieri della Cgil. E Reggio Calabria si annunciò, quell’alba, con i militanti dell’Arci Caccia che facevano vigilanza dall’alto dei viadotti.
Ricordo il formarsi della testa del corteo affidata ai lavoratori dell’Omega. Ricordo il corteo che attraversava la città e le bandiere rosse e le sassaiole dai vicoli del Torrione. E ricordo ancora un megafono davanti a una chiesa e un prete tifoso dei Boia chi Molla.
Nord, Sud uniti nella lotta. Che bella giornata fu quel 22 ottobre, nonostante le bombe.
Il movimento sindacale del Nord sostenne di aver rotto l’isolamento della città, di aver cambiato il registro del clima: dalla collera, dalla disperazione al progetto, al conflitto e alla contrattazione. Ricordo gli slogan contro le gabbie salariali.
Qualcuno sosterrà dopo che quella rivolta non fu di una città di disperati ma di una speranza collettiva andata a infrangersi contro un muro di false promesse. E come dargli torto, se il pacchetto Colombo, il V Centro siderugico, Saline e tutto il resto sono rimaste occasioni perse?
So  che i Moti espressero violenza, barricate, sassaiole, mezzi capovolti, incendi e devastazioni. Tutto questo come può conciliarsi con un popolo che scende in piazza con la speranza di poter conquistare i suoi obiettivi?
A meno che non si creda che le forze di polizia e l’esercito fossero rappresentanti di uno Stato nello Stato golpista o democratico, quella violenza che caratterizzò i Moti fu espressione di tante altre cose. Di sicuro della rabbia, della collera, della disperazione di una città. Che poi in questo magma incandescente abbia avuto un ruolo la `ndrangheta questo è un punto indiscutibilmente vero.
Anzi, con i Moti, la `ndrangheta assume un ruolo che non aveva mai avuto prima nella città. Da semplici contrabbandieri, i De Stefano di Archi assumono un ruolo di classe dirigente nella città dolente, quella Reggio opaca e collusa animata dai fantasmi incappucciati della massoneria, della malapolitica, della borghesia mafiosa.
Da allora, da quel 1972, il mio rapporto con Reggio Calabria non si è mai interrotto. Anche se, naturalmente, è cambiato nel tempo: da giornalista sono poi tornato a Reggio alla fine degli anni Ottanta. E da allora ci torno spesso, per scrivere sul declino della città, sui suoi intrecci inquietanti.
Dunque, quel racconto sulla Rivolta di Reggio non è un reportage degli anni Settanta di qualche illustre inviato. A rileggere quella testimonianza di un collaboratore di giustizia della metà degli anni Novanta, sembra di vivere paradossalmente la Reggio Calabria di questi mesi.
A 42 anni dai Moti, la città si presenta di nuovo senza speranza, le attese di questi anni sono andate deluse, regna la paura per quello cd`aiuto futuro ci riserverà. I senza lavoro sono un esercito sempre di più numeroso, le giovani generazioni tornano ad emigrare, la disoccupazione intellettuale fa paura, le casse di Palazzo San Giorgio sono state depauperate, con ammanchi di decine di milioni di euro. Il sindaco Arena ha ammesso un disavanzo sul bilancio del 2010 pari a 118 milioni di euro. Le imprese che dovrebbero lavorare con il comune, sono creditrici di svariati milioni di euro e in questa situazione di crisi e di prospettiva di commissariamento del Comune, molte si sono tirate indietro.
La commissione d’accesso, infatti, è agli sgoccioli del suo lavoro. La vicenda dell’arresto di un consigliere comunale e soprattutto la scoperta che una società, Multiservizi, era di proprietà al 50% del Comune e dei Tegano attraverso prestanomi, pesano come macigni nella decisione che il governo si appresta a prendere e che potrebbe portare allo scioglimento del consiglio comunale entro qualche settimana.
Non c’è nulla, insomma, di cui andare fieri nel rivendicare la continuità con I Boia chi molla, nell’esaltare un “modello Reggio” che è solo un vuoto slogan. A meno che non si voglia prendere a modello per le future generazioni, le passeggiate sul lungomare delle starlette….
Ieri come oggi, la democrazia sembra sospesa, a Reggio. Ieri sono entrati in azione i carri armati per ripristinare la legalità violata, oggi le forze di polizia e la magistratura sono impegnate in uno sforzo impressionante per recidere la malapianta della `ndrangheta e le sue relazioni con la cosiddetta borghesia mafiosa. E accanto a loro, lo Stato, il governo continua a procedere con lo scioglimento dei consigli comunali non sulla base di prove processuali sulle infiltrazioni mafiose, ma solo per il sospetto che vi siano queste relazioni pericolose.
Su quel biennio dei Moti, tocca ad altri esprimere valutazioni e bilanci. Sono consapevole, per esempio, che una chiave di lettura dei Moti come espressione della destra o come rivolta del Sud contro il movimento operaio del Nord, è limitante. Quello che a me interessa sottolineare è la cesura storica che i Moti hanno rappresentato per cercare di isolare quella trama che da ieri arriva ad oggi, e che vede èlite politiche e criminali percorrere insieme quasi cinquanta anni di storia comune.
Mi chiedo perché personaggi che ieri, in quei primi anni Settanta, militavano nella destra eversiva e stragista dei Franco Freda e, nello stesso tempo, erano `ndranghetisti delle famiglie De Stefano Tegano, ancora oggi sono presenti sulla scena criminale e politica?
Un collaboratore di giustizia a metà degli anni Novanta mette a verbale: «Freda era anche in buoni rapporti, in amicizia con tutta la famiglia De Stefano e quindi pure con coso, con quel Sciacqualattughe del cugino, con quel Paolo Martino che frequentava a Roma tutta la destra eversiva…».
Quel Paolo Martino arrestato dal procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, il 14 marzo del 2011 a Milano, assieme a una rappresentanza di 35 `ndranghetisti della Lombardia.
Oggi siamo di nuovo a un`emergenza democratica? Io credo di sì. C’è di nuovo una crisi nella tenuta dello Stato, in termini di supremazia e rispetto della legalità. Siamo cioè a una legalità fortemente compromessa in grandi parti del Mezzogiorno (e non solo). Ma al Sud illegalità spesso si coniuga con mafia, `ndrangheta, camorra.
A partire dagli inizi degli anni Settanta la ‘ndrangheta ha conosciuto uno sviluppo impetuoso diventando l’organizzazione criminale più importante del panorama mafioso in Italia. Più lungimirante sicuramente dei Corleonesi, che hanno dichiarato guerra allo Stato, e oggi possiamo dire che quella guerra l’hanno persa. Mi riferisco al biennio stragista del ‘92 e del ‘93.
Tre decenni di riflettori accesi sulla Sicilia, mentre la `ndra ngheta si sviluppava indisturbata, tessendo la sua rete di rapporti, complicità, connivenze. E si evolveva trasformandosi in una moderna e globalizzata holding del crimine.
Ceto politico e ceto criminale sembrano diventati sempre di più due mondi diversi, ma l’uno e l’altro si sono parlati, in questi anni. Hanno cooperato.
L` immagine della processione di candidati, politici, amministratori a casa del boss Giuseppe Pelle rimane impressa nella memoria. Mica stiamo parlando di vent’anni fa. È accaduto pochi anni fa, prima che fosse eletto questo consiglio regionale. Con il cappello in mano, andavano dal boss i vari candidati, ripresi dalle telecamere e dalle microspie della Procura.
Se negli anni Settanta il ciclo dell’accumulazione criminale si è sviluppato attorno all’industria dell’Anonima Sequestri, e nel decennio successivo la ‘ndrangheta è entrata con forza nel mercato internazionale della droga, con il suo espandersi al Nord – come dimostrano le indagini congiunte della Procura di Milano e di Reggio – ha ritrovato la necessità di riconquistare punti di riferimento nel ceto politico locale. Al Nord – e sono significativi i primi scioglimenti di consigli comunali in Piemonte e Liguria, mentre aspettiamo adesso interventi sull’hinterland milanese – ma anche in Calabria si sono moltiplicate le pressioni mafiose sulle amministrazioni locali.
La vicenda del “corpo di reato più lungo d’Italia”, mi riferisco al raddoppio della Salerno-Reggio Calabria, con gli attentati e il pizzo al 3% dell’importo dei lavori, è ancora cronaca di queste ore. Proprio il giorno dopo che il governo ha annunciato la fine dei lavori entri il 2013, incendi di mezzi nei cantieri testimoniano la presenza mafiosa nei lavori.
In questi anni l’Onorata Società ha perso la sua  carica antistituzionale e la `ndrangheta di Reggio Calabria ha instaurato rapporti con pezzi delle istituzioni e della politica a partire dagli anni 70.
Quando accenno alla lungimiranza della `ndrangheta rispetto ai cugini Corleonesi mi riferisco, per esempio, alla risoluzione violenta dei conflitti. In mezzo secolo o poco meno, la ‘ndrangheta ha eseguito soltanto cinque omicidi politici eccellenti: Valarioti a Rosarno, Losardo a Cetraro, il pm della Cassazione Scopelliti, Ludovico Ligato e Franco Fortugno. Voglio ricordare anche la strage dei due carabinieri a contrada Razzà di Taurianova – dove era in corso un summit di `ndrangheta.
Ecco, in realtà anch’io stavo per fare un peccato di omissione grandissimo. A chi dobbiamo addebitare la strage di Gioia Tauro? Ai manovali della `ndrangheta? Alla politica? Ai Boia chi Molla? All’eversione stragista di destra?
22 luglio 1970, una settimana – il 14 in realtà – dopo l’inizio della scintilla della rivolta di Reggio. 180 centimetri di rotaia fatta saltare. Un treno, il direttissimo Palermo-Torino che deraglia. Sei morti, settantadue feriti. Soprattutto donne. Per lungo tempo i colpevoli sono stati individuati in quattro poveri ferrovieri accusati di disastro colposo. Poi quasi un quarto di secolo dopo, un collaboratore di giustizia ha rivelato che la strage fu eseguita da due manovali della `ndrangheta ma ordinata da chi guidava la rivolta della città.
Mi fermo qui, preoccupato per il presente della città. Perché Reggio si presenta come una città senza guida. Nel vuoto di potere, con un sindaco e una giunta che dichiara il suo fallimento, Reggio è manovrata da Catanzaro? O invece da quel centro d’affari che è via Durini 14 di Milano? Dove si è imbattuta l’inchiesta del pm Giuseppe Lombardo che indagando sul riciclaggio dei De Stefano ha incontrato la Lega di Umberto Bossi, l’ex destra eversiva dei Pasquale Guaglianone, ex cassiere dei Nar, consulente finanziario di quasi tutte le aziende e le società che contano a Reggio Calabria? Quel Guaglianone amico, che coincidenza, di quel Paolo Martino, sì quel “sciacqualattughe” arrestato nel marzo del 2011 dal procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, cugino dei De Stefano?
Non vorrei che ancora una volta sia la magistratura a dover fare chiarezza.

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