Processo Meta, parla Fiume e Reggio trema
REGGIO CALABRIA È solo la prima scossa di un terremoto che si annuncia devastante. Nino Fiume sta parlando del potere dei De Stefano, del grande potere della massoneria a Reggio e di politici. «Presi…

REGGIO CALABRIA È solo la prima scossa di un terremoto che si annuncia devastante. Nino Fiume sta parlando del potere dei De Stefano, del grande potere della massoneria a Reggio e di politici. «Presidente, posso contare voto per voto, elezione per elezione. I politici venivano a bussare alla nostra porta. C’era gente che valeva venti o trenta voti e se ne ritrovava migliaia».
Peppe Lombardo, il pubblico ministero, regista della maxi inchiesta “Meta”, gli dice di non fare nomi. Salotti e segreterie che contano in Calabria tremano, ma un nome l’ex killer dei De Stefano lo fa: «Io stimavo alcune persone della politica tra cui Peppe Scopelliti, anche se lui ora certe cose non le ricorda».
«Digli di assumere mia moglie, altrimenti gli metto una bomba alla Regione». Il pentito, un tempo cognato dei boss di Archi, la riporta così com’è “l’imbasciata” che Carmine De Stefano mandò all’attuale governatore della Calabria. Nino Fiume ricostruisce gli anni della guerra di mafia fino ai giorni nostri in cui le mazzette non sono prerogativa solo delle cosche: «Presidente, il 5% degli appalti andava alla ‘ndrangheta e il 10% alla politica».
«Mi sono impegnato in prima persona per conto di un politico nelle campagne elettorali per le regionali prima del 2000 e per le comunali – aggiunge –. Chi si è rivolto a me sapeva che ero intraneo alla cosca De Stefano. Per raccogliere voti per questo politico di centrodestra mi sono “tolto il cappello” con Carmine, Peppe e Giorgio De Stefano»
«Lo schifo di Reggio è la Reggio bene. Loro si prendevano tutto. – spiega il collaboratore in aula bunker dietro un paravento che lo protegge da fotografi e telecamere – Paolo De Stefano ne faceva parte. Giorgio De Stefano è stato sempre l’avvocato, il consigliori della famiglia».
Una famiglia sempre ben accetta nei salotti che contano. Mafiosi dalle scarpe lucide come molti anni fa li ha definiti il giornalista Gigi Malafarina. Mafiosi che conoscono bene l’importanza di entrare in contatto con grembiulini disposti a dare una mano. «Reggio ha vissuto sempre di massoneria. – ha ribadito Nino Fiume – Mico Libri quando parlava dei massoni li chiamava i “nobili”. “Non li tocchiamo, diceva, sennò ci rovinano”. Il problema sono le logge deviate. È inutile cercare le liste dei massoni nelle prefetture. Piuttosto si deve trovare il famoso libro custodito in una banca e che fu rubato durante una rapina alla quale prese parte anche Giacomo Lauro. I De Stefano, quel libro, lo volevano a tutti i costi».
Quantificare l’impero degli “arcoti” è un qualcosa difficile, quasi impossibile, da fare in riva allo Stretto. Società e beni sparsi in tutta Italia. I primi a investire in Francia, sulla costa Azzurra, e in Svizzera sono proprio i De Stefano. Segreti inconfessabili che solo i vertici del casato mafioso conoscono.
«Una parte degli affari dei De Stefano è custodita in uno studio ai Parioli a Roma, vicino alla sede della Zecca di Stato. – svela il pentito – Una volta ci andai con Carmine De Stefano. Era una sorta di studio notarile e il dottore che ci accolse aveva i guanti bianchi. Carmine De Stefano aveva il timore che qualcuno scoprisse la sede di quello studio legale. Io non entrai ma mi accorsi di scritte in russo o in polacco, non ricordo bene. Ricordo, invece, che un giorno l’avvocato Tommasini mi disse che Peppe De Stefano faceva società con persone e in luoghi inaccessibili finanche al Presidente della Repubblica».
È sempre la massoneria a giocare, oggi come ieri, un ruolo chiave: «È un livello superiore. – spiega Fiume – Sono persone che si aiutano a patto di non entrare in contrasto con le istituzioni. Un magistrato da noi si avvicina con amicizia o lo si delegittima». La storia lo insegna. Il processo “Meta”, anche nell’udienza di oggi, ha riservato sorprese. Ha colpito, infatti, l’insistenza del pm Lombardo a fare domande sui contatti tra ‘ndrangheta reggina e Cosa nostra e soprattutto sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. «È stato un favore ai palermitani perché Scopelliti aveva in mano l’accusa del maxiprocesso in Cassazione. Sono stati due calabresi». «Non faccia nomi in questa sede» gli intima il sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo. Un caso chiuso che si sta riaprendo?