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«Facevo la bella vita. Ogni mese cambiavo macchina»

REGGIO CALABRIA Chiunque si aspettasse grandi svolte o altrettanto grandi rivelazioni dalla testimonianza del collaboratore Giacomo Toscano è destinato a rimanere deluso. Ammesso come teste al proces…

Pubblicato il: 08/01/2013 – 19:22
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«Facevo la bella vita. Ogni mese cambiavo macchina»

REGGIO CALABRIA Chiunque si aspettasse grandi svolte o altrettanto grandi rivelazioni dalla testimonianza del collaboratore Giacomo Toscano è destinato a rimanere deluso. Ammesso come teste al processo “Agathos”, il pentito che da pochissimi mesi ha iniziato a parlare con i magistrati della Dda reggina è difficile che venga ricordato per chiarezza espositiva o densità dei contenuti. Finito in carcere per una condanna definitiva per violenza sessuale e altri crimini come rapine e assegni a vuoto, che segue a diverse denunce collezionate per reati analoghi, Toscano è sempre riuscito ad evitare le operazioni che negli anni hanno colpito le cosche reggine. Eppure – ha dichiarato oggi davanti ai giudici – «dagli anni 80, appartengo alla famiglia dei Ti Mangiu, i Labate». Liquida i reati che gli sono addebitati – riconosciuti da sentenze passate in giudicato – come montature, accuse ingiustificate di donne che l’hanno voluto incastrare e a cui i tribunali hanno creduto, ma non esita a dichiararsi autore di «rapine, estorsioni, danneggiamenti, tutto quello che c’era da fare per i Labate. Facevamo a turno, a volte andavo con Ciccio Malara, altre volte con mio cugino Pietro Toscano». Un salto di qualità – a detta del collaboratore – che dopo l’affiliazione avrebbe cominciato a «fare la bella vita, mi davano 3-4 milioni al mese negli anni 80, ogni mese cambiavo la macchina», dice Toscano quasi con una punta di rimpianto.
A permettere il suo ingresso nel potentissimo clan dei Ti Mangiu – storica cosca del quartiere Gebbione, così conosciuta per la ferocia che ne contraddistingue  capi e gregari – sarebbe stato Paolo Labate, «era lui a comandare all’epoca, era a conoscenza di tutti i movimenti che c’erano al Gebbione». Un rapporto che permetterà a Toscano anche di diventare l’autista del boss, come ha confermato Nino Lo Giudice, che il Tribunale ha sentito per una seconda volta poche ore prima di Toscano. Ma del nuovo collaboratore, Lo Giudice ha anche ridimensionato – e di molto – il ruolo, aggiungendo particolari quasi da gossip se non scadessero nel più bieco trash. «Conosco Giacomo Toscano di vista, qualche volta l’ho visto insieme a Paolo Labate. Veniva spesso con la moglie  e il figlio alla Pineta Zerbi, dove avevo il chiosco. Lui commerciava la moglie. Ma Giovanni Chilà mi disse anche che la signora era l’amante di Paolo Labate». Affermazioni smentite da Toscano, che – rispondendo a una generica domanda dei legali, che hanno preferito evitare di scendere nel dettaglio su quanto dichiarato da Lo Giudice – ha affermato di non aver mai avuto nulla a che fare con la prostituzione. Il suo erano «le estorsioni, i danneggiamenti, quello che c’era da fare» per incrementare gli affari del clan sui quali però non riesce a scendere nel dettaglio «al Gebbione – si limita a dire – controllavano tutto dagli appalti, alle estorsioni, alle ditte delle pulizie dei treni, al mercato della carne, anche di provenienza illecita». Di più non sa dire il collaboratore, che dopo aver passato un lungo periodo entrando e uscendo dal carcere, deve essersi allontanato dai Labate, tanto da dare per morto il patriarca Paolo, che invece – a più di novant’anni – continua a sfrecciare per le strade di Reggio sud sul suo cinquantino blu. Del resto, non era sul potente del Gebbione che – per lo meno oggi – il Tribunale e le parti erano interessati a entrare in dettaglio, ma su Carmelo Murina, reggente di Santa Caterina per conto della cosca Tegano. Un dato su cui le dichiarazioni di più di un collaboratore convergono – rendendo, a detta del Tribunale, inutile il  confronto fra Nino Lo Giudice e il cugino Consolato Villani richiesto dall’avvocato Calabrese – e che anche Toscano ha confermato senza esitazione alcuna. «Conosco Murina – ha raccontato oggi il collaboratore – con lui ci siamo cresciuti perché io frequentavo Archi. Lì avevo una ragazza, con cui ho fatto un figlio non riconosciuto che oggi ha 24 anni. Lei abitava al lotto 6 e Murina subito sopra, quindi ci vedevamo spesso, eravamo come fratelli». Ed è proprio in nome di questo rapporto che Toscano afferma di conoscere nel dettaglio la storia criminale di quello che gli inquirenti considerano il reggente di Archi. «Murina è stato praticamente allevato da Peppe Tegano. È un mammasantissima, ad Archi lo temevano tutti. È lui che l’ha fatto malandrino. Quando Murina lo vedeva gli baciava la mano». E probabilmente è di questo potere riflesso che Murina godeva a Santa Caterina, anche se «non è che poteva decidere da solo, doveva sempre dar conto ai Tegano». E nel popoloso quartiere di Reggio nord, quello che attualmente ne viene considerato il reggente, secondo il collaboratore, sarebbe succeduto a Nino Lo Giudice, che fino alla morte del padre sarebbe stato «un santista deputato al controllo di Santa Caterina, una figura di peso nella `ndrangheta reggina». È grazie all’amicizia con Murina che – afferma Toscano – si sarebbe potuto permettere il lusso di gestire un’estorsione in proprio ai danni del Quiper di Reggio nord «altrimenti io che sono di un’altra zona, come facevo ad andare a chiedere, a fare?», spiega quasi spazientito il nuovo pentito. Ma Murina non è l’unico uomo di peso delle cosche reggine che Toscano afferma di conoscere. Fra i suoi contatti ci sono anche gli Stillitano di Vito – considerati espressione dei Condello – e i Morabito di Terreti, famiglia «da sempre vicina ai De Stefano-Tegano», dice il collaboratore, che ricorda «a casa di costoro è stato arrestato Tegano». Tutte dichiarazioni estorte a fatica al collaboratore dal pm Giuseppe Lombardo e dalle difese, nel corso di un’udienza tormentata dai problemi di audio, e che adesso starà al Tribunale giudicare. E chissà se nelle valutazioni dei giudici entrerà anche un dettaglio che solo sul finire dell’udienza il collaboratore ha rivelato: «Mi chiamavano “Il pazzo” perché una volta ho preso un pullman e sono andato a fare un giro per vedere che effetto fa guidarlo. Era il 4, quello che arriva al Gebbione. L’autista era sceso e aveva lasciato le chiavi e io ho preso l’autobus».

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