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Chiesti 17 anni di carcere per lo spione dei clan

REGGIO CALABRIA Sono pene durissime quelle chieste dal pubblico ministero di Reggio Calabria Giovanni Musarò al termine della sua requisitoria al processo “Piccolo carro”. Fatta eccezione per Domenic…

Pubblicato il: 30/01/2013 – 15:50
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Chiesti 17 anni di carcere per lo spione dei clan

REGGIO CALABRIA Sono pene durissime quelle chieste dal pubblico ministero di Reggio Calabria Giovanni Musarò al termine della sua requisitoria al processo “Piccolo carro”. Fatta eccezione per Domenico Demetrio Praticò, per il quale il pm ha chiesto 15 anni e 12 mesi di arresto,  partendo dalla media della pena prevista per il capo d’imputazione di cui risponde – associazione mafiosa armata – per gli altri due imputati la pena richiesta è stata quella massima. Per il boss Giovanni Ficara, già condannato a 18 anni nel processo “Reggio Sud”, Musarò ha chiesto 14 anni e sei mesi di reclusione, 14mila euro di multa e 12 mesi di arresto, mentre per Giovanni Zumbo, che risponde di concorso esterno in associazione mafiosa ma «considerata la sua storia, il suo profilo è di straordinaria gravità», la richiesta è stata ancora maggiore: 16 anni e tre mesi di reclusione e 12 mesi di arresto.
«L’uomo che giocava con due mazzi di carte», come il pm ha definito Zumbo nel corso della sua requisitoria, è l’elemento centrale dell’intero procedimento.
Ufficialmente commercialista e custode di beni confiscati, ex “antenna” dei Servizi, con un passato da assistente alle dipendenze dell’ex assessore al Personale e oggi sottosegretario della giunta regionale Alberto Sarra, Zumbo è stato incastrato dagli investigatori per il ritrovamento di un falso arsenale il giorno della visita del presidente Napolitano a Reggio Calabria. Fu lui infatti a far ritrovare l’auto, una Fiat Marea tanto carica di armi ed esplosivi da sembrare un arsenale, con una telefonata. Di quell’auto, fatta ritrovare il 21 gennaio scorso sul percorso che Napolitano avrebbe dovuto percorrere, assieme a Zumbo devono rispondere anche Demetrio Domenico Praticò e il sospetto capo dell’omonimo clan, Giovanni Ficara. Ma anche loro, secondo gli investigatori non sarebbero che pedine di un gioco più grande e i cui protagonisti rimangono ancora sconosciuti.

Lo spione al servizio dei clan  
Una farsa, secondo gli inquirenti, che – nei piani di Zumbo e di chi come una pedina lo guidava – avrebbe dovuto rivelarsi utile per accreditarsi quale fonte affidabile presso Procura e magistrati. Ma soprattutto, per avere accesso a nuove informazioni sulle indagini in corso, che lo stesso Zumbo avrebbe in seguito passato ai clan. E soprattutto al boss Peppe Pelle. Notizie importanti. Molto importanti. Informazioni riservate, spesso presenti in documenti non ancora depositati o proprie di indagini ancora tutte da concludere come quelle sulla Perego, azienda brianzola che sarebbe stata scelta dalla ’ndrangheta del mandamento jonico per dare l’assalto all’Expo. Un’indagine che all’epoca era ancora in itinere e la cui informativa conclusiva non era ancora stata depositata. «Noi non lo sapevamo – ha commentato oggi il pm nel corso della requisitoria – Zumbo lo sapeva».
Lo spione al soldo dei clan, avrebbe avuto informazioni da addetti ai lavori. Come la presenza di quell’anziana signora nella palazzina del capo del mandamento jonico Giuseppe Pelle, che più di una volta aveva mandato in fumo il tentativo del Ros di piazzare una cimice in casa del boss. Oppure di quelle microspie che gli investigatori erano infine riusciti a nascondere e attraverso le quali avevano ascoltato e registrato tutti gli incontri a casa Pelle, inclusi quelli più che cordiali che il vecchio boss aveva avuto con alcuni candidati alle regionali, come il pidiellino Santi Zappalà, oggi dietro le sbarre. O ancora, quell’avvertimento che Zumbo in persona ha voluto riferire a Pelle, sul troncone milanese dell’operazione “Crimine”, che nel luglio 2010 avrebbe in seguito portato dietro le sbarre oltre 300 persone fra la Calabria e la Lombardia e colpito pesantemente gli interessi economici del clan al Nord.
«E queste sono informazioni che la ’ndrangheta ha utilizzato – ha scandito il pm Musarò per sottolineare l’estrema pericolosità delle rivelazioni di Zumbo – dare queste informazioni a Giovanni Ficara significava darle non solo alla cosca Ficara, ma a tutte le cosche del mandamento jonico, ma vuol dire anche dirlo alla Lombardia, perché Ficara rappresentava il mandamento di Reggio con i “locali” lombardi».
Quello che Zumbo, all’epoca stimato professionista e momentaneamente impiegato a tempo pieno presso il colorificio di famiglia, non poteva sapere è che nell’ambito di quell’operazione anche lui sarebbe finito in manette. Mentre l’ex barba finta parlava, raccontando al boss Pelle e a Giovanni Ficara – aspirante capoclan dell’omonima cosca di Reggio sud – dettagli sulle indagini in corso, sugli esponenti del clan coinvolti e sui provvedimenti che sarebbero stati presi a breve dagli uffici giudiziari tanto di Milano, come di Reggio Calabria, l’unica microspia dei Ros scampata alle rivelazioni di Zumbo, registrava.
«Queste informazioni non le sa nemmeno Dio», assicurava all’epoca Zumbo a Pelle e a Ficara, con la sicurezza di chi sa di poter entrare senza difficoltà nelle stanze più riservate dei dipartimenti investigativi. Reggini e non. E dai quali può non solo attingere informazioni e particolari, ma anche fa sparire prove. O almeno, questo millantava. Spavaldo, l’ex amministratore di beni confiscati non sembrava avere paura di essere immortalato dalla telecamera che i Ros avevano piazzato davanti a casa Pelle, perché – affermava – quei fotogrammi li avrebbe fatti sparire. Così come non aveva timore o imbarazzo alcuno nel rivelare cose che solo chi è prossimo agli apparati investigativi può sapere.
Un lavoro per il quale Zumbo, non voleva né soldi né favori. «È un amico nostro, lavora nei Servizi. E lo fa per amicizia» spiegava Giovanni Ficara a un perplesso boss Giovanni Pelle, stupito da tanta magnanimità. «Da voi non vuole niente sicuro (…) neanche un pasticcino, niente! (…) è un ragazzo a posto» dice ancora Ficara a Pelle, «lo fa perché è reggitano». Come se l’esser nato in riva allo Stretto significasse inequivocabilmente stringere un patto di fedeltà con i boss. Ma del resto, del mondo della ’ndrangheta, pur non essendo affiliato, Zumbo si sentiva parte, tanto da commentare «con quelle microspie ci hanno rovinati».
Un lavoro, che l’ex “antenna” dei Servizi avrebbe svolto non solo per le cosche del mandamento jonico ma anche per quelle del mandamento tirrenico. Sarà lo stesso Zumbo a raccontare al boss Pelle come lui stesso avesse avvertito Domenico Oppedisano, quasi rimproverandolo di non essersi accorto di avere l’agrumeto pieno di microspie. «Mi ha risposto “Ma io sono solo un povero vecchio”», ha riportato Musarò.

Le altre indagini su Zumbo
Ma quello che si presentava a Reggio e provincia come stimato professionista, accreditato presso Procure e uffici giudiziari, non si è limitato a mettere in guardia piccoli e grandi boss. L’ex amministratore di beni confiscati si è prestato anche a fare da anonimo – e maldestro – telefonista per la messinscena del falso arsenale, fatto ritrovare il giorno della visita a Reggio Calabria del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una farsa, necessaria  da una parte, a saldare i conti all’interno della cosca Ficara, dilaniata da tempo da un conflitto intestino tra Giovanni Ficara e il cugino Pino, dall’altra ad accreditare l’ex “antenna” dei Servizi quale fonte affidabile presso Procura e magistrati. Ma soprattutto, per avere accesso a nuove e sempre più dettagliate informazioni sulle indagini in corso, che lo stesso Zumbo avrebbe in seguito passato ai clan. E non solo a quelli della jonica. Allo stesso modo sarebbe stata solo una farsa, «una tragedia», l’arsenale che il Ros su indicazione di “fonte confidenziale” – una notizia che Zumbo aveva spifferato ai Servizi con cui era in contatto – troverà in contrada Bosco a Rosarno. Armi dei Molè, ma che la “fonte” farà passare come «armi dei Bellocco e dei Iamonte». Un piccolo favore che l’ex amministratore di beni confiscati aveva deciso di fare ai suoi “assistiti”, i Molè, dei quali aveva in custodia il supermercato “Idea sud”. Sarà l’indagine “Easy” a svelare – ha ricordato oggi il pm – come Zumbo, da custode giudiziario del supermercato della cosca Molè, permettesse agli autentici proprietari non solo la nomina dei tre direttori che si sono avvicendati alla guida dell’attività, ma soprattutto l’apertura di un conto corrente a nome della ditta, formalmente amministrata da Zumbo per conto della Procura e che avrebbe addirittura emesso assegni a vuoto. Circostanze che a detta del pm dimostrano la piena consapevolezza e partecipazione dell’ex “antenna” dei Servizi nel progetto della cosca Molè: svuotare la “Idea sud”, per lasciare allo Stato al momento della confisca solo un guscio vuoto pieno di debiti.

I rapporti con le cosche reggine, l’ombra dei Tegano e dei De Stefano
Ma anche con le cosche di Reggio città Zumbo era in ottimi rapporti. Sarà l’indagine “Astrea” – ha sottolineato ancora il pm – a svelare  come ci fosse il commercialista spione dietro i sofisticati castelli finanziari che hanno  permesso alla potente famiglia De Tegano di mettere le mani, fin dalla sua costituzione, sulla Multiservizi, la principale società mista del Comune di Reggio Calabria. Stando agli atti dell’inchiesta “Astrea”, a fare da partner dell’Ente municipale nella proprietà e gestione della società sarebbero state la Com.Edil Srl, Si.Ca srl e Rec.im Srl. Ma nonostante negli anni le tre società abbiano formalmente cambiato nomi e proprietari, da sempre rispondono a una medesima identità economica e gestionale, quella del clan Tegano. Regista dell’operazione, almeno dal 2002 in poi, Giovanni Zumbo, che nell’affare ha coinvolto anche il cognato Roberto Emo, la moglie, l’avvocato Maria Francesca Toscano e la sorella commercialista Maria Porzia Zumbo.
Ma la Multiservizi non è l’unica compagine societaria nella quale i nomi dei fratelli Zumbo e dei rispettivi coniugi compaiono accanto a quelli di ben noti esponenti o prestanome dei clan. Sempre l’operazione “Astrea” ha dimostrato come i quattro siano stati a rotazione soci di minoranza dal 2000, della Paideia sportiva dilettantistica srl e dal 2004, della Ge.Pa.C. srl, due società che si occupavano della gestione Parco Caserta, la più grande struttura sportiva pubblica della città. Una struttura che ricade – come il pentito Roberto Moio ha affermato e le indagini hanno documentato – nell’orbita del boss Giuseppe De Stefano, che del cartello De Stefano-Tegano è personaggio di primissimo piano. Socio di maggioranza è, invece, Giuseppe Giacomo Calabrò, un soggetto noto a cronache e ordinanze giudiziarie come satellite della famiglia Frascati.
Ma i rapporti fra Giovanni Zumbo e il rampollo della famiglia De Stefano, non si limitano alle relazioni d’affari. A legarli non è solo un passato da vicini di casa nel quartiere Archi, periferia nord della città – da sempre roccaforte della famiglia De Stefano – ma  quella che gli inquirenti definiscono «una significativa familiarità e fluidità di rapporti», testimoniata dalle innumerevoli telefonate che la talpa e il boss si sarebbero scambiati per fissare misteriosi appuntamenti che nessuno ha monitorato.
E sarebbero stati proprio i De Stefano – ha sottolineato oggi in aula – il pm Giovanni Musarò a presentare Zumbo a un Giovanni Ficara, preoccupato dopo il ritrovamento di una cimice nella sua auto e alla ricerca di informazioni di prima mano. «Giovanni Ficara trova la microspia e ha necessità di sapere cosa stia succedendo e si rivolge ai De Stefano. I De Stefano lo mandano da Zumbo». E una volta contattato, sarà lo stesso spione a rivolgersi agli arcoti per ricevere rassicurazioni su Ficara.
Pressoché nello stesso periodo, l’amministratore di beni confiscati Giovanni Zumbo gestiva per conto del Tribunale di Palmi beni riconducibili a famiglie “di peso” della `ndrangheta reggina e non, come i Cordì di Locri o i Molè di Gioia Tauro. Ad assegnarglieli, almeno in un’occasione, un altro grande indagato degli ultimi mesi: l’ormai ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, il magistrato Vincenzo Giglio, arrestato nel corso dell’ultima maxi-operazione della Dda di Milano con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Tra gli atti di quell’inchiesta, spiega il gip Giuseppe Gennari nell’ordinanza, c’è anche «un decreto di Giglio con il quale il magistrato, sequestrando a titolo di misura di prevenzione alcuni immobili a Saverio Latella, appartenente alla cosa mafiosa dei Latella-Ficara, ha nominato amministratore dei suddetti beni il dottore commercialista Giovanni Zumbo e se stesso giudice delegato alla procedura. Quello conferito – si legge nelle carte – è, come è noto, un incarico fiduciario che presuppone una relazione di collaborazione continuativa tale da implicare rapporti diretti».
E Zumbo, che nello stesso periodo sentiva ripetutamente il boss Giuseppe De Stefano, sembra conoscere bene anche il giudice Giglio, personaggio che lui stesso bolla come facilmente avvicinabile e notoriamente “mangiatario”, corrotto.

Il silenzio della talpa
Tutte circostanze su cui Zumbo, nei lunghi mesi di processo, non ha mai fornito la propria versione. Dopo un primo interrogatorio di garanzia costellato di “no comment”, durante il quale avrebbe maldestramente tentato di addossare tutte le responsabilità su Roberto Roccella – il carabiniere cui aveva segnalato la presenza dell’auto arsenale – l’ex “antenna” dei Servizi si è trincerato nel silenzio.
Con risposte telegrafiche ha prima confermato e immediatamente dopo negato di essere l’autore della segnalazione che ha permesso il ritrovamento della Fiat Marea trasformata in un arsenale. Da allora – era il 13 giugno – Giovanni Zumbo non ha più detto una parola, tanto meno ha chiesto di essere ascoltato. In silenzio si presenta in aula nei giorni di udienza, in silenzio va via. Eppure sarebbero tante le circostanze che l’ex collaboratore dei Servizi potrebbe e dovrebbe chiarire. Così come sono molti i colletti bianchi che le parole di Zumbo potrebbero far tremare. Nomi che ritornano, si intrecciano, legano un oscuro faccendiere dalla specchiata vita pubblica e dalle inconfessabili amicizie private, politici più o meno chiacchierati, piccoli e grandi imprenditori, servizi più o meno segreti, cosche del sud e nord Italia. Il risultato è un mosaico che getta ombre pesanti sugli ultimi decenni della vita reggina e sui suoi protagonisti. Un mosaico che solo Zumbo potrebbe ricostruire. Ma la sua scelta, è il silenzio.

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