REGGIO CALABRIA «In carcere volevano uccidermi perché pensavano che mio fratello Tommaso Costa si fosse pentito». Lo ha rivelato stamattina il collaboratore di giustizia Giuseppe Costa sentito dalla Corte d`Assise d`Appello di Reggio Calabria davanti alla quale si sta celebrando il processo di secondo grado per l`omicidio di Gianluca Congiusta.
Rispondendo alle domande del sostituto procuratore generale Francesco Mollace, il pentito di Siderno ha ricostruito gli anni della faida con i Commisso e la «finta pace» con la cosca avversaria.
«La cosca Costa – ha dichiarato il collaboratore – è nata quando è morto mio fratello Luciano, il 21 gennaio 1987; prima facevamo parte alla cosca Commisso. Facevamo parte io, Tommaso, Giuseppe Curciarello, Domenico e Michele Curciarello, Cacciolo Antonio, Bruno Salvatore, Megna Achille, Filippone Vincenzo, Natale Agostino di Gioiosa Jonica. C’era Leone Clemente Alberto che abitava ad Altamura però è di Siracusa, è stato affiliato da Tommaso».
«Io sono andato in carcere il 23 marzo 1990 – ha aggiunto – e in questi anni ho mantenuto i rapporti con i familiari, facevo i colloqui quando loro potevano venire. Prima che mi sposassi, all`infuori dei miei familiari non mi scrivevo più con nessuno perché avevo intenzione di tagliare con questa vita. Mi sono sposato in carcere nel 2000 però mia moglie la conoscevo da prima. Con le altre persone legate al gruppo avevo interrotto i rapporti da quando mi hanno arrestato. Qualche lettera sporadica, forse, non ricordo, ma avevo chiuso con rapporti epistolari al di fuori di mio fratello».
Ritornando alla faida, Giuseppe Costa ricostruisce cosa è avvenuto nello scontro con i Commisso: «Ci distacchiamo dai Commisso quando è morto mio fratello Luciano. La faida nasce in quel momento. In realtà non si è mai conclusa. Sono venute delle persone per questa pace, e io ho consentito a tutto quello che loro hanno detto nonostante ho capito che c’era qualcosa sotto, perché chi si è messo in mezzo ad effettuare questa pace aveva fatto delle promesse, che sono state nulle, e da lì ho cominciato a capire che era tutto un trucco, che prendevano solo del tempo. Mio fratello Tommaso, quando mi scriveva, gli dicevo che doveva uscire, mi parlava della Gru (il centro commerciale di Siderno), che c’erano due posti uno per me uno per lui. Mi diceva che doveva vendere un agriturismo, evidentemente aveva intenzione di farlo, ma qualcuno gliel’ha vietato. Tutte queste cose le vedevo, poi la cosa che Tommaso ha fatto alcune dichiarazioni che sono uscite sul giornale, io mi trovavo detenuto e mi sono visto dalla sera alla mattina guardato male e alcune persone pensavano che questo mio fratello si doveva pentire. Mi volevano uccidere a me. Chiamavo i calabresi per sapere cosa stava succedendo ma non mi rispondevano. Mi sono procurato un taglierino, me lo sono messo in tasca, però loro l’hanno capito perché nonostante eravamo tutti ergastolani ci sono anche persone che vogliono andare a casa. Pensando che io li affrontavo fuori hanno pensato di farmi uccidere nella doccia. C`era uno fisso tutte le mattine che mi aspettava alla doccia, e io gliel’ho detto al direttore. Alla fine la mattina del 20 agosto mi sono deciso che era ora di collaborare. Mi hanno chiamato da sotto, c’era un brigadiere, e gli ho spiegato. Non mi hanno ucciso grazie al commissario del carcere dell`Opera e ai suoi uomini che sono intervenuti in tempo».
Giuseppe Costa tira in ballo anche l`ex consigliere regionale socialista Luciano Racco e il centro commerciale da lui diretto “Le Gru”. E lo fa quando parla di Riccardo Rumbo. «Quest`ultimo – ha affermato – lo conosco da quando faceva il barbiere. È un killer di fiducia dei Commisso. Con Racco e le “Gru” avevano interessi. Sono da tanto tempo in carcere, ma da quello che so ci dovevano essere interessi economici di un certo livello. Da lì ho capito che non c`era pace tra noi e Commisso. La moglie e i nipoti di mio fratello Tommaso li ha fatti lavorare Luciano Racco. Il periodo esatto non ve lo so dire, ma ricordo che mio fratello era in carcere».
«Mio fratello Tommaso – ha aggiunto – mi ha scritto più di una lettera. Una anche quando era latitante e io rinchiuso nel carcere di Terni. Mi diceva che con gli amici (si riferiva ai Commisso), era tutto finito, ma non mi ha spiegato il motivo. Ho un nipote che si chiama Tommaso Costa, il figlio di Luciano. Le lettere che mi arrivavano le scriveva mio fratello Tommaso a nome di mio nipote. La famiglia Curciarello è stata vicina a noi nel corso della faida con i Commisso. Era composta da due cugini, Michele, figlio di Giuseppe, e Domenico, figlio di Umberto. Fino a un certo punto le cose sono andate bene, poi mi sono accorto che non andavano come dovevano andare».
Nel corso del lungo interrogatorio il pentito ha parlato anche del carabiniere Donato Giordano, bruciato vivo dal clan rivale perché avrebbe appoggiato i Costa nella faida: «Giordano faceva il carabiniere. Non è stato costretto (ad appoggiarci) ma è stato volontario. Io gli dicevo di tornare a fare quello che faceva, il carabiniere. Lui però mi ha detto di no perché voleva sconfiggere i signori Commisso. Giordano non era un venduto, ma è stato sempre un volontario».
«A me non interessavano le cariche della `ndrangheta – è sempre la deposizione di Giuseppe Costa –. Io sono stato costretto a entrarci e nel 2005 avevo il trequartino. Poi c`era il padrino, il crimine e la mamma. Tommaso l`aveva pure il trequartino ma forse anche qualche grado più alto».
Dopo aver spiegato il ruolo di paciere svolto dal boss di Rosarno, Umberto Bellocco (incontrato al campo sportivo di Palmi), Giuseppe Costa ha riferito sull`omicidio Congiusta, ricordando una confidenza ricevuta in carcere: «In merito all’omicidio Congiusta, le posso dire che è venuto uno in carcere a Livorno e mi ha detto lo sanno tutti che suo fratello in questo fatto è innocente. Questo detenuto era Antonio Commisso, classe 1956, ha detto che anche lui in questo omicidio non c’entrava nulla».
L`udienza si è chiusa con le dichiarazioni del boss Tommaso Costa, collegato in video conferenza dal carcere dell`Aquila: «Mi trovo in una veste difficile, ciò che mio fratello sta dicendo, e mi creda è un compito difficile perché se avesse detto la verità sarei stato zitto, ma ci sono due punti che forse non ricorda e vorrei parlare di questo. Sia io che lui conosciamo i meccanismi del 41 bis ed eravamo sottoposti a censura. Stando a quanto dice mio fratello io avrei gli mandato una lettera a nome di mio nipote. Chiedo alla Corte di verificare presso la casa circondariale di Terni se esiste quella lettera e di acquisire una fotocopia. Avrei molte cose da dire ma me le riservo in altre occasioni. Ribadisco la mia estraneità all’omicidio Congiusta e dico che non ho mai affiliato tale Leone Alberto. Non l’ho mai conosciuto. Mia moglie so che lavorava non a “Le Gru” ma in altri istituti. Verificate perché la mia vita è tracciabile dal 1988 ad oggi, 30 anni di carcere sono tracciabili».
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