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L`analisi di Tursi: «Il futuro del Pd si gioca a Cosenza»

COSENZA «Il destino del Pd calabrese si gioca nella provincia di Cosenza, per le dimensioni del voto di sinistra e per le dimensioni geografiche del territorio. Ma pure per le fratture interne al par…

Pubblicato il: 04/03/2013 – 12:26
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L`analisi di Tursi: «Il futuro del Pd si gioca a Cosenza»

COSENZA «Il destino del Pd calabrese si gioca nella provincia di Cosenza, per le dimensioni del voto di sinistra e per le dimensioni geografiche del territorio. Ma pure per le fratture interne al partito, che sono tutte qui». Antonio Tursi è una delle teste pensanti del partito, dottore di ricerca in teoria della comunicazione, formazione presso prestigiose università, curatore della rubrica “Nonsolocyber” per l’Espresso e autore di saggi di cui l’ultimo dedicato proprio al Pd, dal titolo “Partito digitale, il Pd che viene dal futuro”. Eppure per lui il futuro del partito cui da sempre ha aderito è incerto e va cercato nella provincia più grande della regione.
Tursi era fino a poche settimane fa alla guida della Commissione di garanzia che avrebbe dovuto condurre il Pd verso i congressi. Ma ben prima degli esiti delle elezioni si è dimesso e non ha nemmeno rinnovato la tessera. Le ragioni come sempre vanno cercate ben oltre la classica goccia che fa traboccare un vaso pieno. «È successo che alcuni circoli erano stati sottratti al controllo della Commissione». Si trattava di circoli su cui non era opportuno esercitare uno sguardo troppo severo, dove per esempio il segretario era il figlio di un potente del partito, come Pirillo ad Amantea, o dove il numero degli iscritti era aumentato di colpo con l’avvicinarsi delle primarie.
Tursi quindi si è fatto da parte, spiegando in modo ufficiale il suo passo indietro e lasciando a qualche Twitter le motivazioni più intime. Lui era stato messo a coordinare la commissione da D’Attorre e sembrava che il commissario regionale avrebbe portato il partito al rinnovamento. «Il lavoro della commissione di garanzia nella provincia di Cosenza fu proficuo, alla fine censimmo 126 circoli e avremmo potuto procedere al congresso», spiega Tursi, raccontando di un partito che era destrutturato, dove l’ultimo segretario provinciale era stato Franco Bruno e con una classe dirigente delegittimata dalla sconfitta regionale e cosentina, senza una spinta ideale: «In poche parole D’Attorre prese in mano un partito che non c’era».
Fare i congressi era la via giusta, ma pure quella più difficile e come è noto i congressi non si fecero, quello regionale fu rimandato pur se alcuni si erano candidati alla guida del partito. Tursi racconta che la decisione di rimandare ogni cosa fu assunta da D’Attorre per via della preoccupazione che «se si fa il congresso, questi si spartiscono le poltrone». Rimandare dunque per preparare meglio. In realtà c’erano solo i nomi, non la linea e per questo il sospetto di D’Attorre poteva essere fondato. La celebrazione di un congresso in quelle condizioni avrebbe portato a una leadership finalizzata alla gestione delle elezioni.
Ma intanto i tempi per risolvere i problemi si ridussero e i nodi arrivarono rapidamente al pettine. Si dovevano fare le primarie e si dovevano fare nelle condizioni di sospensione di leadership del partito in Calabria, facendo i conti con le molte truppe locali che fanno riferimento a singoli leader. «Bersani fa un patto con alcuni colonnelli calabresi, non gli resta altro e gli esiti di quel patto sono evidenti», racconta tranquillo Antonio Tursi, spiegando le ultime contorsioni del Pd calabrese.
Il segretario nazionale è riuscito a portare a Roma «il blocco di candidati di fuori»: la Bindi, D’Attorre, Nico Stumpo e Minniti. In realtà Tursi sa bene che sia Minniti che Stumpo sono calabresi per nascita, politicamente di meno. «Minniti ha bloccato il congresso di Reggio, se si fosse fatto il partito si sarebbe compattato attorno a Demetrio Battaglia. Il fatto è che Minniti non rappresenta più Reggio Calabria, altrimenti si sarebbe candidato alle primarie nella città, così come Stumpo a Crotone, dove avrebbe vinto Nicodemo Oliverio».
Il secondo passo compiuto da Bersani era quello di dare ai colonnelli calabresi, che secondo lui contavano nella geografia dell’influenza interna al partito, le cose che chiedevano. E per Tursi i colonnelli erano Nicola Adamo e Mario Oliverio. Dunque Adamo, benché fuori dal partito, è considerato ancora parecchio influente e per capirlo bene basta guardare la composizione di quella commissione di garanzia che avrebbe dovuto guidare il Pd verso il congresso. All’interno troviamo due esponenti di correnti nazionali – Tursi per Marino e Villella per Bersani – e con loro Damiano Covelli, palesemente in rappresentanza di Adamo, «non solo un leader locale, ma anche uno che non è nel partito».
Le conseguenze del potere di influenza che esercita Adamo sono tutte dentro le primarie. Come per un effetto domino, «la presenza di Enza Bruno Bossio tra i candidati alle primarie è legittimata direttamente dal partito nazionale che aveva riconosciuto la presenza di Covelli nella commissione». Inoltre Adamo pur se fuori dal partito resta forte in molti circoli e lui conosce il partito e le sue mille pieghe molto meglio di chiunque altro. Eppure nella ricostruzione di Tursi emerge qualcosa di paradossale e decisamente controcorrente. Infatti lui è persuaso che Adamo non abbia i voti che tutti credono, «che pure il partito nazionale è persuaso che lui abbia». Ma essendo venuto l’imprimatur romano sulla moglie, ecco che dai vari circoli sono venuti pure i consensi.
Un meccanismo semplice ed efficace: «Quale sindaco del Pd non è disposto a canalizzare i voti verso un candidato che viene benedetto dall’alto e che domani sarà in Parlamento?», si domanda sorridendo Antonio Tursi, aggiungendo che le piccole amministrazioni sono sempre col pensiero rivolto a qualche possibile finanziamento per sopravvivere e realizzare qualcosa per propri paesi. In realtà i conti che Tursi propone per leggere le dimensioni del consenso di Nicola Adamo vanno in senso opposto. «Adamo è il responsabile delle scelte fatte in passato, le conseguenze di quelle scelte sono che a Cosenza il partito ha perso la metà dei voti dal 2008 a oggi e se guardiamo i voti presi al Senato troviamo diversi punti in più rispetto ai voti presi alla Camera, dove era in lista la moglie». Eppure indubitabilmente Adamo ha vinto, ma pure su questo Tursi nutre qualche dubbio, aggiungendo che «lui può dire di aver mandato la moglie in parlamento. Ma quanto durerà questo parlamento? E dopo chi legittimerà una nuova candidatura della Bruno Bossio?».
C’è poi l’altro terreno di spartizione, quello che guarda alle regionali prossime. E il candidato non espresso, ma da tutti considerato probabile è Mario Oliverio. Ma stando così il partito, «Oliverio avrà il consenso del Pd, non quello dei calabresi e finirà per fare il consigliere regionale, non il presidente», perché è del tutto evidente che molti equilibri sono saltati e la novità del M5S non è eludibile, mentre i partito si muove nel buio. Si profila con assoluta impellenza la necessità di un cambiamento, che Tursi sa poter venire dall’alto, dalla leadership nazionale, che però pare in affanno. Allora non resta che un cambiamento dal basso. «Solitamente le spinte al rinnovamento vengono dagli amministratori locali, quelli maggiormente vicini ai cittadini – spiega Antonio Tursi – ma qui gli amministratori locali non sembrano sensibili ad assumersi questo ruolo, perché sentono forte la pressione che viene dal partito e da chi governa gli enti locali di maggiore peso».
A questo punto rimangono solo i giovani, solitamente portatori di potenti istanze innovative. «Purtroppo qui è fortissima la pratica della cooptazione come strumento per fare carriera e la carriera nel partito si risolve in una candidatura», dice sconsolato Tursi che sottolinea pure «la mancanza di qualità della formazione politica dei giovani», con l’effetto di determinare un deficit nella formazione della nuova classe dirigente.

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