Zumbo condannato a 16 anni e 8 mesi di carcere
REGGIO CALABRIA Una pena esemplare per la talpa Giovanni Zumbo: questa era stata la richiesta del pm Giovanni Musarò e tale è stata quella inflitta in sentenza nel processo “Piccolo carro”. Dovrà sco…

REGGIO CALABRIA Una pena esemplare per la talpa Giovanni Zumbo: questa era stata la richiesta del pm Giovanni Musarò e tale è stata quella inflitta in sentenza nel processo “Piccolo carro”. Dovrà scontare sedici anni e otto mesi di reclusione l’ex commercialista e amministratore di beni confiscati, pizzicato a soffiare ai clan informazioni riservatissime su indagini in corso. Notizie da addetti ai lavori finite in mano a boss del calibro di Peppe Pelle e Giovanni Ficara.
«E queste sono informazioni che la ’ndrangheta ha utilizzato – aveva tuonato il pm Musarò in requisitoria, per sottolineare l’estrema pericolosità delle rivelazioni di Zumbo –. Dare queste informazioni a Giovanni Ficara significava darle non solo alla cosca Ficara, ma a tutte le cosche del mandamento jonico. E vuol dire anche dirlo alla Lombardia, perché Ficara rappresentava il mandamento di Reggio con i “locali” lombardi».
Ma Zumbo non viene da una famiglia di ‘ndrangheta. Il suo non è uno dei cognomi che si ripetono nelle ordinanze di custodia cautelare o nei cimiteri calabresi, disegnati dalle faide che hanno visto i clan massacrarsi mutuamente per decenni. Zumbo è uno – ha sostenuto il pm, trovando conferma nelle decisioni del Tribunale collegiale – che la ‘ndrangheta l’ha scelta. E probabilmente proprio per questo il suo è un «profilo di estrema gravità».
Ex “antenna” dei Servizi, con un passato da assistente alle dipendenze dell’ex assessore al Personale e oggi sottosegretario della giunta regionale Alberto Sarra, Zumbo è stato incastrato dagli investigatori per il ritrovamento di un falso arsenale il giorno della visita del presidente Napolitano a Reggio Calabria. Fu lui infatti a far ritrovare l’auto, una Fiat Marea tanto carica di armi ed esplosivi da sembrare un arsenale, con una telefonata. Una farsa, secondo gli inquirenti, che – nei piani di Zumbo e di chi come una pedina lo guidava – avrebbe dovuto rivelarsi utile per accreditarsi quale fonte affidabile presso Procura e magistrati. Un piano ben studiato cui hanno collaborato anche i due coimputati della talpa, Demetrio Domenico Praticò e il capo dell’omonimo clan, Giovanni Ficara.
Anche per loro sono arrivate pene esemplari: a fronte di una richiesta di sedici anni di reclusione, il Tribunale ha condannato Praticò a passare 15 anni e 8 mesi dietro le sbarre. È invece di undici anni e nove mesi di carcere, a fronte di una richiesta di 14 anni e sei mesi di reclusione, la condanna inflitta al boss Giovanni Ficara, già condannato a 18 anni nel processo “Reggio Sud”.
Una sentenza che conferma in pieno l’impianto accusatorio del pm, che per Zumbo, definito «l’uomo che gioca con due mazzi di carte», aveva chiesto la massima severità, ma che non esaurisce gli interrogativi che l’indagine sulla talpa ha sollevato e che allo stato – come lo stesso Musarò ha sottolineato in sede di requisitoria – rimangono insoluti.
Intercettato in casa del mammasantissima Peppe Pelle, è lo stesso Zumbo a presentarsi, spendendo una credenziale importante: la sua appartenenza ai servizi segreti, con i quali – sostiene – ha rapporti più che radicati. «Ho fatto parte di… e faccio parte tuttora di un sistema che è molto, molto più vasto di quello che (…) – racconta Zumbo, presentandosi a don Peppe Pelle – ma vi dico una cosa e ve la dico in tutta onestà: sunnu i peggio porcarusi du mundu (sono gli schifosi peggiori al mondo, ndr) e io che mi sento una persona onesta, e sono onesto, e so di essere onesto… molte volte mi trovo a sentire… a dovere fare… non a fare a fare, perché non me lo possono imporre, ma a sentire determinate porcherie che a me mi viene il freddo!».
Cosa abbia detto o fatto Zumbo e per conto di chi non è dato sapere, tanto meno per quale motivo i servizi segreti militari (Sismi prima, Aise poi) abbiano sentito la necessità di avere una propria base a Reggio Calabria. Ma stando a quello che l’ex amministratore di beni confiscati raccontava al boss della jonica, mentre le microspie dei Ros registravano, a trattare con lui non c’erano solo i terminali locali delle agenzie di informazione, ma «sono scese persone… pezzi grossi da Roma! Sono venuti in giacca e cravatta».
Chiamati a rispondere a processo, gli allora responsabili delle agenzie di informazioni in città – Corrado D’Antoni, numero due di quel Marco Mancini di recente condannato a nove anni di reclusione per lo scandalo Abu Omar e che Zumbo sostiene di aver più volte incontrato – si sono trincerati dietro il segreto di Stato o risposte omissive e contraddittorie, in seguito smentite da altri uomini dello Stato.
Rimane dunque ancora tutto da investigare e da chiarire l’interrogativo che i giudici hanno messo nero su bianco nel decreto di fermo: «Come Zumbo, professionista stimato, accreditato presso gli uffici giudiziari e di polizia e le agenzie di sicurezza, abbia avuto la possibilità, per un prolungato periodo di tempo e con apparente totale facilità, di conoscere nel dettaglio le più importanti e delicate indagini dell’Arma dei carabinieri; abbia poi coltivato un intenso rapporto con un esponente di rilievo delle cosche di ‘ndrangheta come Ficara Giovanni mettendosi a sua disposizione senza (apparentemente) nulla chiedere in cambio e presentandosi come collaboratore esterno dei servizi segreti?».