MELITO PORTO SALVO 12 febbraio 2013: all’alba scatta l’operazione Ada contro la cosca Iamonte, ma a finire in manette non ci sono solo capi e gregari del clan. Tra i sessantacinque soggetti colpiti dall’ordinanza di custodia cautelare, ci sono anche uomini in vista di Melito. Scattano le manette per il sindaco, Gesualdo Costantino, e il capo dell`ufficio tecnico, Franco Maisano, mentre sul registro degli indagati finisce l`ex sindaco del Comune jonico, Giuseppe Iaria, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Qualche giorno dopo, la maggioranza dei consiglieri rassegnerà le dimissioni per prendere le distanze da un’amministrazione fortemente compromessa e il prefetto Piscitelli sospenderà il consiglio comunale nominando commissario per la gestione provvisoria dell`ente il viceprefetto Salvatore Fortuna. Un passo preparatorio allo scioglimento arrivato formalmente solo oggi, ma che sembrava già scritto nelle carte che hanno portato dietro le sbarre Costantino e Maisano, e fatto finire nei guai Iaria.
«Noi ci dobbiamo basare su Gesualdo perché quello abbiamo. Ma lui ci deve tornare il conto. L’abbiamo messo noi lì»: è questa una delle intercettazioni che grava sul pesantissimo capo d’accusa – associazione mafiosa – che ha fatto finire in carcere il sindaco di Melito Porto Salvo, Gesualdo Costantino. Per i pm che ne hanno chiesto e ottenuto l’arresto non ha semplicemente favorito i clan, ma era uno del clan. Un affiliato. Un uomo dei boss Carmelo e Natale Iamonte – `ndrina tra le più antiche che ha scritto di suo pugno la storia della ndrangheta – coccolato dal clan almeno dal 2007, quando era vice presidente della Provincia di Reggio Calabria in forza al Pd, quindi eletto – con una puntuale valanga di voti nel maggio 2012 – primo cittadino di Melito. Da quello scranno – dicono i pm – Costantino aveva concesso alle aziende del clan appalti, favori e milioni e milioni di euro pubblici in commesse.
«Costantino Gesualdo – scrive il giudice per le indagini preliminari – è espressione della cosca Iamonte e l’azione amministrativa che egli, neo sindaco del comune di Melito di Porto Salvo, conduce è risultata essere improntata al clientelismo e tesa a tutelare gli interessi del sodalizio mafioso che, anche in occasione delle consultazione del 2012, ne ha appoggiato la candidatura e favorito l’elezione». Ma l’asservimento dei rappresentanti istituzionali al clan che da decenni detta legge a Melito Porto Salvo, paesino cerniera fra la città di Reggio e la Locride, non è occasionale – dicono i pm – ma sistemico. Nei guai, ma non dietro le sbarre, per decisione del gip, è finito anche l’ex sindaco – sempre Pd – del comune melitese che per i pm, al pari di Costantino, era stato funzionale ai progetti dei Iamonte.
«La storia politica della città di Melito di Porto Salvo è puntellata da alcune vicissitudini riconducibili alla forte permeabilità mafiosa dell’ente pubblico comunale”, commenta il gip nel ricordare che per ben due volte il Comune è stato sciolto per infiltrazione mafiosa. Ma nonostante i commissari, le cose non sembrano essere cambiate. Quella di Melito era un’amministrazione in cui ai boss o ai loro “assessori ombra”, come Giuseppe Tripodi – ufficialmente imprenditore di successo impegnato anche sui cantieri della Metro C e della tangenziale di Roma – bastava chiamare in Comune per decidere il valore di un appalto e la ditta cui assegnarlo.
Per l’accusa, i Iamonte, col supporto di imprenditori, alcuni dei quali ritenuti direttamente affiliati alla cosca, e con la «pesante e grave connivenza» degli amministratori locali, hanno «condizionato il regolare svolgimento delle gare d’appalto bandite dai comuni del basso Ionio». Ma il clan non si era accontentato semplicemente degli appalti pubblici, ma ha “monopolizzato le attività imprenditoriali nel settore edilizio, sia pubblico che privato, attraverso il controllo di imprese locali e, più in generale, sarebbe riuscita a condizionare tutte le attività produttive, subordinando al proprio consenso l`inizio di qualunque attività economica».
Dai più piccoli appalti pubblici fino alla centrale a carbone che la multinazionale dell’energia Sei Repower vorrebbe costruire a Saline Joniche, nonostante le proteste della popolazione, tutti dovevano chiedere il permesso al clan. «Abbiamo intercettazioni telefoniche e ambientali dove è chiaro l’intervento della famiglia mafiosa che era d’accordo alla realizzazione della mega opera», ha rivelato il procuratore aggiunto Nicola Gratteri che ha coordinato l’indagine.
Ma il procuratore è anche stato chiaro nell’indicare che la cosca non aveva neanche bisogno di minacciare danneggiamenti o ritorsioni. Al contrario erano gli stessi imprenditori a rivolgersi ai boss o ai loro proconsoli perché “più conveniente”.
Con il benestare dei Iamonte non c’erano problemi burocratici, le autorizzazioni arrivavano in giornata, ogni certificato era «regolare» e autorizzato, non c’era allaccio – luce, acqua, gas – che non fosse in regola. Almeno sulla carta.
È così che il cartello di imprese che il clan aveva creato è divenuto mattatore unico degli appalti banditi dall’Ente pubblico, del quale i Iamonte decidono da tempo il rappresentante. «La ‘ndrangheta non è né di destra né di sinistra – ha detto Gratteri – Per quanto riguarda la politica, la nostra indagine si fonda sulla voce diretta di Costantino e Iamonte. Ci sono state cene e incontriin cui gli uomini della consorteria hanno discusso di voti. Prima di questa indagine non sapevo neanche chi fosse il sindaco. Oggi c’è Costantino che è del Pd, domani e dopo domani ci sarà il tizio che è del Pdl. Le cose non cambieranno se i calabresi non si arrabbiano». (0010)
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