REGGIO CALABRIA “Conosco tanti ragazzi di sedici- diciassette anni che oggi sono disposti a mettersi a disposizione della `ndrangheta nuova come ha fatto Canzonieri con Murina”: è l’intero patrimonio conoscitivo di un uomo che ha attraversato la storia della `ndrangheta reggina, quello che il pentito Roberto Moio ha messo oggi a disposizione del Tribunale di Reggio Calabria e delle parti, nel corso del processo “Archi-Astrea”.
Dalla seconda guerra di `ndrangheta che ha visto il declino dell’impero assoluto di Paolo De Stefano, “il numero uno, il capo assoluto di Reggio” – dice Moio che come altri collaboratori prima di lui, si blocca quando deve parlare del boss di Archi che ha disegnato il nuovo volto delle `ndrine – alla famiglia dei Lavilla, che al pari di Moio ma con funzioni diverse, di generazione in generazione, è cresciuta sotto l’ala dei clan di Archi, il collaboratore non si tira indietro di fronte alle domande del pm Giuseppe Lombardo e degli avvocati.
Svincolato dalle pastoie della videoconferenza, fino a quando la stanchezza non rende confuse e sintetiche le risposte, Moio ha ripercorso oltre trent’anni di storia criminale. La sua, di giovane autista dei gruppi di fuoco del clan Tegano, divenuto uomo del clan alla New Labor, la società che gestiva i sontuosi appalti delle Ferrovie; ma anche quella della cosca Tegano, che dalla guerra verrà catapultata in un direttorio assieme alle famiglie De Stefano e Condello, che governerebbe la città.
Un percorso che Moio, nipote del boss Giovanni Tegano, conosce perfettamente così come sa pesare ruoli e compiti degli uomini su cui nel tempo il clan ha puntato. Uomini come i Lavilla. Da Giuseppe, che per gli arcoti gestiva traffici di cocaina di piccolo calibro, al fratello Franco, “un amico fraterno di Audino, da noi Tegano era uno di casa”, ai figli di Giuseppe, Maurizio e Antonio, che pur con ruoli diversi, hanno saputo ritagliarsi un profilo sempre più imprenditoriale e dai pm sono identificati come i prestanome del clan all’interno della Multiservizi, i Lavilla “sono una famiglia che è sempre stata a disposizione dei Tegano”. E che dei Tegano, con il matrimonio di Antonio con la figlia del boss Giovanni, diventeranno pure parenti. Un’evoluzione che segna anche la fortuna imprenditoriale tanto del neo-genero di Tegano, da allora sempre più coinvolto negli affari – non solo criminali – del clan, ma anche del fratello Maurizio, “molto amico di Schimizzi perché condividevano l’interesse per l’ambito commerciale”.
Proprio la rapida ascesa e l’altrettanto rapido e tragico declino di Paolo Schimizzi, che sarebbe stato scelto da Giovanni Tegano come reggente e sarebbe stato vittima di lupara bianca per mano della sua stessa famiglia, segna un passaggio cruciale – ricorda il collaboratore – dell’evoluzione del clan. A Schimizzi – vero unico referente degli affari dei Tegano – succederanno gli altri generi del boss, Michele Crudo e Carmine Polimeni, che in precedenza scalpitavano per il ruolo da protagonista che il rampante reggente designato si era designato. “Lavilla no, perché Giovanni Tegano pensava che fosse troppo orientato alla questione degli affari – sottolinea Moio -. A lui toccava fare cose più fini, più particolari. Non si occupava di New Labor o Leonia, ma più volte l’ho visto alla Multiservizi”.
Affari che il clan Tegano controllava, ma i cui proventi venivano spartiti fra le tre grandi famiglie – spiega il collaboratore – “chi arrivava prima sul lavoro gestiva la situazione, ma poi i soldi andavano spartiti per bene”. Meccanismi che Moio conosce perché – afferma – “ho raccolto estorsioni per i Tegano dal `91 al 2010”. Troppo anche per uno `ndranghetista di lungo corso come lui, sembra far intendere, per spiegare come già dal 2004 avesse iniziato a contattare gli investigatori nel tentativo di iniziare una collaborazione con la giustizia. “Ero stanco di tutto, volevo andare via, per questo ho tentato di far arrestare Giovanni Tegano”.
Moio era all’epoca uomo di fiducia del boss. Di frequente – secondo il suo racconto – lo incontrava per consegnargli i soldi della tangente mensile della New Labor, ma anche in occasione di cene, incontri e riunioni che Giovanni Tegano– tranquillamente – teneva a casa di quel Paolo Siciliano che per anni ne ha protetto la latitanza. O almeno così è stato fino al fallito blitz degli inquirenti, che troppo tardi arrivano alla casa, individuata grazie alle indicazioni di Moio, e che fino a poco tempo prima aveva ospitato il boss latitante. Un flop che – sempre secondo quanto è emerso – rompe il rapporto fra gli investigatori e il futuro collaboratore, ma inizia anche a far temere a Moio le conseguenze del suo tradimento. La città è piccola, le voci corrono, e lui – racconta – inizia ad avere timore che, nonostante tutte le precauzioni possibili fossero state prese – incluso un incontro dall’altro lato dello Stretto – la notizia dei suoi rapporti con gli investigatori possa arrivare all’orecchio degli uomini del clan. “Schimizzi continuava ad incontrarsi con Tegano, ma io non più. Prima del 2004 invece c’era un feeling, mi invitava spesso a cena. Questo cambiamento inizialmente mi puzzava, poi ho visto che continuavano a affidarmi incarichi di responsabilità, continuavano a farmi gestire soldi e mi sono tranquillizzato”.
Solo nel 2010, le parole di Franco Benestare, uno degli uomini della colonna vertebrale del clan torneranno a fargli paura. “Attento, farai la fine di Schimizzi”, Benestare avrebbe detto al futuro collaboratore. “Poi per fortuna sono stato arrestato”, dice quasi con sollievo Moio. E il giorno dopo il suo arresto, il nipote di Giovanni Tegano ha iniziato a parlare. E il clan di Archi a tremare. (0050)
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