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Operazione Crimine, inizia l`Appello

REGGIO CALABRIA Un anno fa – era  l’8 marzo del 2012 – si brindava nei bar vicini all’aula bunker di Reggio Calabria. Parenti e amici dei detenuti del processo Crimine festeggiavano quelle novantadue…

Pubblicato il: 29/04/2013 – 20:57
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Operazione Crimine, inizia l`Appello

REGGIO CALABRIA Un anno fa – era  l’8 marzo del 2012 – si brindava nei bar vicini all’aula bunker di Reggio Calabria. Parenti e amici dei detenuti del processo Crimine festeggiavano quelle novantadue condanne e trentaquattro assoluzioni – per un totale di 586 anni di carcere inflitti, a fronte degli oltre 1.700 richiesti dai pm – con cui si era chiuso il primo grado del processo per i 119 imputati che avevano scelto il rito abbreviato. Una sentenza che nelle intenzioni  dei magistrati dell’accusa – coordinati dagli aggiunti Nicola Gratteri e Michele Prestipino – avrebbe dovuto essere molto più severa. E proprio una linea di maggiore severità, che riconosca tutte le aggravanti che in prima istanza non sono state tenute in considerazione, è probabilmente quella che invocheranno i pm Giovanni Musarò e Antonio De Bernardo, applicati al processo d’appello al fianco del pg  Francesco Scuderi, magistrato di lungo corso ed esperto di criminalità organizzata. Lo scopriranno a partire da domani i 92 condannati, come i 27 assolti che dovranno tornare di fronte alla Corte d’appello di Reggio Calabria, presieduta da Rosalia Gaeta, con Giuliana Campagna e Daniele Cappuccio che dovranno tornare in aula per il processo di secondo grado.

L`OPERAZIONE CRIMINE Un procedimento che già si annuncia lungo e complesso, perché è più che prevedibile che a pesare sul nuovo grado di giudizio ci siano anche acquisizioni investigative e dibattimentali venute fuori nel corso dell’ultimo anno. Intercettazioni ambientali, dossier fotografici, relazioni di servizio e  testimonianze dei collaboratori di giustizia non utilizzate in prima istanza, che – lascia filtrare l’Ufficio di Procura – serviranno per invocare una linea di maggiore severità nei confronti degli imputati. Ma sul piatto del processo d’appello ci saranno anche – se non soprattutto nuove prove, tracimate dalle operazioni e di procedimenti dell’ultimo anno – che sembrano confermare il ridimensionamento di quella che il 13 luglio del 2010 era stata annunciata come la madre di tutte le operazioni contro la ndrangheta.
Ma lontano da flash e riflettori, nel tempo, di quella maxioperazione che aveva fatto incautamente gridare al “colpo letale per le `ndrine”,  sono iniziate a venire fuori le prime crepe, cristallizzate da una sentenza di primo grado che non ha voluto e potuto essere troppo severa con un’inchiesta che – nella migliore delle ipotesi – fotografa l’apparato militare e arcaico della `ndrangheta reggina. Un substrato necessario, un collante fondamentale per tenere insieme un’organizzazione complessa e articolata, capace di sedere nei cda di grandi multinazionali, come di imporre la guardiania su un terreno, e che per questo ha ancora bisogno di un’architettura di regole e prassi che ne tenga il braccio più operativo e legato al territorio e il gotha, i soldati e gli strateghi. I vertici decisionali – quelli che di santini e affiliazioni oggi, e forse non solo,  possono serenamente permettersi di fare a meno – dalla dimensione fotografata dall’inchiesta Crimine sembrano essere lontani.

IL FILONE SIDERNESE E IL “CAPOCRIMINE” OPPEDISANO Fatta eccezione per i soggetti coinvolti nel filone sidernese, alimentato dalle intercettazioni captate nella lavanderia Ape Green che hanno incastrato il mastro Giuseppe Commisso e dato gambe a decine di inchieste nei mesi a seguire, pochissimi fra gli imputati di Crimine sembrano avere davvero un ruolo di peso nella `ndrangheta reggina e non. Non lo ha di certo quel Domenico Oppedisano, bollato al momento dell’arresto come il Riina di Calabria, ma la cui figura è stata ridimensionata dallo stesso procuratore aggiunto Nicola Gratteri, che all’indomani della sentenza ha spiegato chiaramente che l’ottantenne di Rosarno, ritrattato dalle telecamere dei Ros mentre veniva insignito della carica di “capocrimine” in quello che è considerato il santuario della `ndrangheta, a Polsi, è o meglio era un “custode delle regole”, la figura che aveva facoltà di ascoltare i racconti delle controversie nate fra locali e affiliati in ogni angolo del globo. Un “molo istituzionale”, sicuramente non operativo, messo a capo di un locale che – come ha spiegato chiaramente in pubblica udienza il pentito Paolo Iannò – nasce e muore nei giorni della festa di Polsi. «Il Crimine non è una persona ma una sede in cui si riuniscono i rappresentanti dei tre mandamenti della `ndrangheta. È un luogo e corrisponde a San Luca, dove in occasione della festa di Polsi si forma un “locale” provvisorio».

IL “LOCALE” PROVVISORIO DI POLSI E LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI E sono proprio rivelazioni come quelle dell’ex capolocale di Gallico – già da tempo affidate ai magistrati, ma curiosamente non entrate nelle centinaia di faldoni dell’inchiesta Crimine – le “nuove” acquisizioni su cui pubblica accusa e difese sembrano intenzionate a darsi battaglia. Iannò – anche in pubblica udienza – è stato cristallino. La tradizionale riunione, ricordata da collaboratori di ogni ordine e grado, non era frequentata dal gotha della `ndrangheta, tanto meno era lì che – secondo Iannò – si prendevano le decisioni più importanti. «A Polsi si formava nei giorni della festa un “locale” provvisorio, formato da tre soggetti, uno per la jonica, uno per la città e uno per la tirrenica. I tre rappresentanti venivano scelti all’interno di ogni singolo mandamento, a rotazione, tra le diverse famiglie», afferma il pentito che spiega «quando sono stato scelto come capolocale di Gallico – dice – ho mandato come rappresentante mio cognato, Francesco Rodà che era sgarrista». Una carica di medio livello, ma più che sufficiente per essere inviati alla tradizionale riunione, lì dove proprio in base al peso nel proprio locale di provenienza venivano assegnate le nuove cariche provvisorie, destinate a durare solo nei giorni della festa «mio cognato essendo sgarrista – dice Iannò – venne fatto contabile». Un ruolo meno impegnativo di quello che Rodà sarebbe stato chiamato ad assolvere se fosse stato scelto come capolocale provvisorio del “Crimine”, tenuto al termine della festa a «passare per novità» notizie e lagnanze riportate a Polsi dai vari “locali” calabresi e non solo. Un ruolo che all’epoca a Iannò in aula non è stato chiesto di assegnare, ma molto ricorda le figure dei cosiddetti “ambasciatori” come Ciccillo Gattuso o Gianluca Favara, emersi in altre indagini e altri processi. Figure abituate a trattare informazioni importanti ma prive di potere decisionale. Perché a Polsi nessuna determinazione – afferma chiaramente Iannò – poteva essere presa. Nessun ordine poteva essere dato. Quel “locale” provvisorio, destinato a nascere e morire nel tempo della festa, era chiamato solo ad ascoltare e riportare. Agganciato alla tradizionale festa di Polsi come per trarre legittimazione da una religiosità che – commenta il pentito – tanto ruolo ha nel mondo delle «regole sociali della `ndrangheta», il “Crimine” di Polsi era «un punto d’ascolto».

FOTOGRAFIE IN SEPPIA DELLA `NDRANGHETA REGGINA Tutte dichiarazioni che trovano conferma nelle parole di altri pentiti come Nino Fiume o Consolato Villani e  sono destinate a pesare, quanto meno su alcuni filoni dell’inchiesta Crimine, che sulla festa di Polsi e sui personaggi che a vario titolo vi hanno partecipato, si concentrano. Un’inchiesta che ha fotografato forse la parte più arcaica della ‘ndrangheta e che è arrivata a affermarne l’unitarietà tessendo il filo di indagini come Olimpia, che ha fatto luce su quella guerra di ndrangheta che in meno di due anni ha fatto registrare oltre settecento morti solo a Reggio città, o “Armonia”, che ha svelato l`esistenza del “Crimine” come camera di compensazione dei clan della provincia jonica, o ancora “Primavera”. Indagini sfociate in maxiprocessi che già in passato hanno disegnato la `ndrangheta come un’organizzazione strutturata in `ndrine auto nome, ma profondamente collegate fra loro, ramificate in ogni continente,  ma con il baricentro  in provincia di Reggio Calabria. La ‘ndrangheta – aveva spiegato il procuratore Nicola Gratteri nella sua requisitoria il 24 ottobre 2011 – è un’organizzazione unitaria, articolata su più livelli e provvista di organismi di vertice che prendono e ratificano le decisioni più importanti, come la “Provincia” una «struttura sovraordinata a regolamentare la politica criminale, l`osservare e far osservare le regole ai rappresentanti e ai partecipi dei locali». Un organismo che, dalla remota provincia in fondo allo stivale, detta legge a Milano come in Australia, a Genova come in Germania o in Canada. Una ricostruzione corretta, comprovata da inchieste e procedimenti. Tuttavia dal disegno, mancano elementi fondamentali.
Nell’affresco di Crimine non c’è traccia – o nella migliore delle ipotesi è flebile come un’ombra –  delle grandi cosche di città (i De Stefano, i Condello, i Tegano, i Libri) come di quelle della Jonica e della Piana (i Piromalli, i Molé, i Bellocco,i  Morabito, i Cordì) tanto meno ci sono le loro proiezioni milanesi nella costola meneghina dell’operazione. In alcuni casi, ci sono i loro riflessi o personaggi di medio livello dei loro bracci operativi. Ci sono i Commisso, certo – e non a caso sono proprio gli imputati di quel filone ad aver rimediato le condanne più pesanti – ma il gotha decisionale della `ndrangheta, quel cda in grado di muovere investimenti in ogni parte del globo, entrare in contatto con lo Stato e con gli Stati, flirtare e imporsi a borghesie nazionali e con le loro strutture – massoneria in primis – in Crimine non esiste. Eppure altre inchieste e soprattutto altre sentenze hanno continuato a raccontare questa ‘ndrangheta, forse molto più difficile non solo da combattere, ma anche da metabolizzare. Ed è per questo che – forse – Crimine pur rimanendo un’ottima inchiesta, non smette di avere il sapore di una fotografia in seppia, che non immortala la ndrangheta, ma solo quell’immagine che le stesse `ndrine aspirano che della ndrangheta si abbia. (0090)

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