Riferimenti alla ricerca delle «verità nascoste»
REGGIO CALABRIA Verità nascoste, verità occulte, verità che bisogna avere il coraggio di svelare per costruire un riscatto che non può essere solo professato, tanto meno delegato solo ed esclusivamen…

REGGIO CALABRIA Verità nascoste, verità occulte, verità che bisogna avere il coraggio di svelare per costruire un riscatto che non può essere solo professato, tanto meno delegato solo ed esclusivamente all’azione di magistratura e forze dell’ordine. È questo il tema scelto dall’associazione Riferimenti per la serata di apertura delle celebrazioni del ventennale, ed è questo il tema su cui sono stati chiamati a confrontarsi attivisti, magistrati e giornalisti che nel proprio quotidiano si battono per svelare verità che i più preferirebbero celare. Uomini e donne con cui Riferimenti vuole schierarsi, perché – dice la presidente Adriana Musella – «la verità noi la vogliamo conoscere e per questo siamo vicini a uomini che onorano la toga come il procuratore capo Cafiero de Raho e il pm Giuseppe lombardo. Ma siamo anche coscienti che la magistratura non solo non può essere l’unica soluzione, ma a volte è anche parte del problema». E non ha remore la Musella ha puntare il dito fin da subito sugli strani episodi che hanno preceduto l’arrivo del nuovo procuratore capo a Reggio, come la violazione dell’archivio atti riservati, o quella puntuale minaccia arrivata all’indirizzo del procuratore Lombardo, invitato a fermarsi con un messaggio troppo familiare e troppo simile a una frase da lui stesso pronunciata in una riservatissima riunione, per essere casuale. Una conferma evidente per la presidente di Riferimenti di quelle verità nascoste e che in molti, troppi pretendono che tali rimangano. «Reggio – dice Musella – è una città tradita dai suoi stessi figli, ingannata perché chi meno te lo aspetti, chi veste in doppio petto è colluso con i sistemi criminali».
E di sistemi criminali si occupa e si ?è occupato per lungo tempo il giornalista del Sole 24 Ore, Roberto Galullo. Da non calabrese, ha saputo andare fondo con invidiabile lucidità nell’analisi di un fenomeno che «è suicida pensare che non abbia sperimentato un’evoluzione nel corso del tempo rimanendo di carattere meramente criminale o delinquenziale». Un’idea – ricorda Galullo –?presente in nuce nell’indagine Sistemi Criminali dell’attuale procuratore capo di Palermo, Roberto Scarpinato, che già dal 2001 denunciava che la mafia non è e non può essere esclusivamente un’organizzazione criminale. Un’inchiesta di cui lo stesso Scarpinato avrà «il coraggio e l’onestà intellettuale di chiedere l’archiviazione» perché necessarie ulteriori indagini per provare che i clan si erano resi disponibili e complici a un sistema di gestione del potere politico, economico e sociale che trascendeva i confini della stessa organizzazione e della stessa Sicilia e il cui progetto radicava nell’isola e non solo da ben prima che i magistrati di Palermo iniziassero a lavorare per svelarlo. Indagini che – forse non casualmente – non arriveranno mai, mentre quel pool verrà ostacolato e smantellato. Indagini che forse si sono fermate troppo presto, prima ancora di mettere in fila tutti gli elementi contraddittori e controversi che incrinerebbero una soluzione semplice, rapida e ancora forse – troppo – scontata, come quelle sull’attentato del rosarnese Preiti. «Elementi – dice Galullo – che tutti abbiamo l’obbligo di avere l’onestà di tenere in considerazione».
Ma indagini timide e intempestive, quando non assenti – come quelle sulla morte di Orsola Fallara, mai sottoposta ad un’autopsia – unite a una riottosità nel prendere atto di realtà politicamente scomode, cristallizzate nello scioglimento di un consiglio comunale come quello di Reggio Calabria, dove «tre consiglieri comunali sono stati arrestati per associazione mafiosa, un assessore è stato costretto a dimettersi per associazione mafiosa, le società miste sono state sciolte per mafia», sono state il nodo centrale dell’intervento di Angela Napoli. Per l’ex senatrice, che della legalità ha sempre fatto la propria bandiera, «questa mancanza di verità fa bene a chi ha continuato a gestire il potere politico, ma così facendo non ha fatto altro che accrescere la pervasività criminale». Verità nascoste, che tali rimarranno, dice la Napoli, «fino a quando per i responsabili continuerà a vigere la garanzia dell’impunità».
Un lasciapassare che – lascia intendere il giornalista Arcangelo Badolati – si spiega nella natura complessa del «laboratorio criminale Reggio Calabria». «Questa è la città in cui ha passeggiato Concutelli, il responsabile morale se non materiale della strage di piazza Fontana, che ha applaudito il comandante della Decima Mas, Junio Valerio Borghese, da cui è partito il fondatore del Fronte Nazionale. Noi li abbiamo inventati i sistemi criminali». Ed è con la sicurezza di chi conosce – e nel profondo – le pagine più oscure e sporche della storia nazionale, pagine nascoste che raccontano il baratto della sicurezza di pochi con il matrimonio bastardo tra destra eversiva e ndrangheta, pagine negate, che Badolati racconta in dettaglio di quegli anni in cui la Dc, vedendo vacillare il proprio potere sull’onda delle mobilitazioni sociali, ha sacrificato la Calabria prima e tutto il Paese poi, sull’altare del mantenimento di se stessa. In questo senso vanno lette le stragi di Stato che hanno insanguinato il Paese e che hanno avuto eco anche in Calabria, con l’attentato alla Freccia del Sud a Gioia Tauro. Una strategia che ha trovato nella destra eversiva e nella ndrangheta alleate e partner affidabili, pronte e preparate a strumentalizzare una rivolta di popolo, come i moti di Reggio, ma anche in grado di condurre il progetto di mantenimento del potere di pochi a scapito dei più, fino alle sue estreme conseguenze, come testimonia il tentato golpe di Junio Valerio Borghese. «Non è un caso che la rivolta dovesse partire da Reggio Calabria», dice Badolati, così come non è un caso che il progetto sia stato abortito. E di certo non per sopraggiunto spirito democratico. Allo stravolgimento violento della società italiana si è preferita all’epoca una strategia molto più pervasiva e meno percepibile, cristallizzata nella fondazione di quella “superloggia”, benedetta dai miliardi del pacchetto Colombo in cui ndranghetisti, vecchi arnesi dell’eversione, pezzi di Stato e della grande borghesia troveranno posto e che avrà emuli in Sicilia e altrove. Ombre di Stato, o di pezzi di questo, che mal si celano nel progetto cui di lì a pochi anni darà voce e gambe l’ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, disegnando un nuovo Stato diviso in quattro macroregioni, in cui?la costituzionalizzazione del potere dei sistemi criminali diventa un asse del sistema. Idee che – casualmente – si concretizzeranno nell’esplosione, avvenuta in quegli stessi anni, dei movimenti leghisti e regionalisti, che avranno – casualmente – la propria riunione nazionale a Lamezia Terme. Casualità, coincidenze cui uomini come il pm Giuseppe Lombardo hanno imparato a non credere. Ed è con la rabbia e la frustrazione di chi spesso è costretto a scontrarsi con inerzie e ritrosie che non dovrebbero avere ragione d’essere e invece – puntualmente – si manifestano e diventano ostacoli insormontabili, che Lombardo parla del suo «metodo Reggio». «Nel mio lavoro – spiega alla platea – ho avuto modo di confrontarmi con verità parziali che a mio modo di intendere sono verità negate. E Reggio vive di verità parziali. Per questo ho cercato di mettere insieme questi pezzi di verità per vedere se c’è un filo logico in grado di rispondere a domande banali». Lombardo non lo dice – pur lasciandolo intendere in maniera cristallina – ma anche certe domande a Reggio sembrano vietate, derubricate a «coincidenze» o «suggestioni». «Mi piacerebbe fare un’operazione verità, che è anche un’operazione trasparenza. Chiamare in Piazza Italia tutti i cittadini, mettere loro a disposizione tutte le carte che abbiamo accumulato, come in un mercatino degli atti giudiziari, chiedere loro di incastrare quelle che qualcuno chiama suggestioni e a fine giornata chied
ere loro cosa hanno capito», dice provocatoriamente il pm. Eppure c’è chi delle coincidenze deve aver paura se è vero che qualsiasi provvedimento amministrativo come l’informatizzazione degli archivi o delle risultanze di tipo tecnico come le intercettazioni o i tabulati, è stato negato. «Parlare oggi di memoria storica del magistrato per fare determinate indagini è una balla», afferma Lombardo, che non ci sta a conformarsi con verità parziali o di comodo «che espropriano l’interlocutore naturale del pm che è il giudice della possibilità di arrivare a una decisione, obbligandolo a emettere una sentenza sbagliata, perché sbagliata e parziale è la ricostruzione giunta in fase di giudizio».
Eppure – spiega Lombardo –?basterebbe concentrare l’attenzione e lo sforzo investigativo «sulle condotte criminali di venti, trenta soggetti» per mettere a nudo l’anima vera della ndrangheta, riunendo i cocci di quelle verità che i pentiti Lauro e Barreca per primi hanno svelato e che in seguito si è preferito ignorare, dimenticando che la ndrangheta non si muove con una logica di mero profitto, ma soprattutto con una strategia di potere.
Tutte parole che il neoprocuratore capo Federico Cafiero de Raho ascolta con attenzione, consapevole di avere di fronte un compito «difficile ed enorme» legato alla pervasività di un fenomeno che nasce come criminale ma affonda le sue radici nel sistema economico, bancario, politico e sociale. Un universo da smantellare. Ma il compito non sembra scoraggiarlo. Forte di un metodo che già in Campania gli ha garantito successi, sottolinea che «a Reggio bisogna ricostruire per andare avanti con una strategia di ampio respiro ma sappia colpire obiettivi precisi e identificati come prioritari”». Ma la strategia repressiva, lascia intendere de Raho, non basta. «Reggio mi sembra la Casal di Principe di venti anni fa. Quando intervenni dopo l’omicidio di don Peppe Diana, in quella piazza non c’era nessuno se non inquirenti o investigatori. Prima di andare via sono tornato in quella piazza ed era piena di ragazzi che non avevano più paura di denunciare il clan dei casalesi. Ecco cosa bisogna fare: liberare la popolazione dalla paura e dalla rassegnazione».
Un obiettivo ambizioso per una città piegata, ma per il quale il neo procuratore capo sembra avere già un percorso in mente: «La verità va cercata fino in fondo. Capire quali sono le verità nascoste è il nostro scopo, sapere che una parte dei cittadini è con noi sarà fonte della nostra determinazione». (0070)