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Il "Divo" e i segreti calabresi

Sette volte presidente del consiglio, dall’Assemblea Costituente in poi, ininterrottamente presente in Parlamento, come deputato fino al 1991, quindi come senatore a vita, Giulio Andreotti spentosi i…

Pubblicato il: 07/05/2013 – 16:36
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Il "Divo" e i segreti calabresi

Sette volte presidente del consiglio, dall’Assemblea Costituente in poi, ininterrottamente presente in Parlamento, come deputato fino al 1991, quindi come senatore a vita, Giulio Andreotti spentosi ieri a Roma all’età di 94 anni, ha segnato la storia d’Italia. Ne è stato uno dei politici simbolo, ma anche – se non soprattutto – il custode di tanti segreti. Notizie che il “divo Giulio” sembra destinato a portarsi nella tomba, a meno che – nei prossimi mesi o anni – non salti fuori un archivio che restituisca all’Italia pagine di verità per decenni negata, occultata e che solo di rado – e mai in modo organico e completo – è stata fatta affiorare. Pagine come quelle che legano Andreotti alla Calabria, alla storia occulta di processi aggiustati e candidature impresentabili come quella di Licio Gelli, o ancora alla quotidiana messe delle estorsioni. Circostanze emerse dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia siciliani, pugliesi e calabresi, che del “divo Giulio” hanno spesso raccontato una storia occulta, tracimata in procedimenti giudiziari, ma mai convertitasi in una sentenza di condanna.

PROCESSI AGGIUSTATI E VOTI PER LICIO GELLI
Una storia che si incrocia – ad esempio – con quella dell’esplosione delle Leghe regionali pensata e diretta da Licio Gelli, venerabile maestro della P2 divenuto sinonimo delle trame e dei misteri in Italia. Gelli avrebbe potuto contare sulle entrature di Andreotti tra i magistrati per chiedere in cambio appoggio in vista della sua candidatura in Calabria.
Era il 1991. In Italia – svelerà dieci anni dopo l’inchiesta “Sistemi criminali” dell’attuale procuratore capo di Palermo, Roberto Scarpinato – `ndrine, clan di Cosa nostra, elementi della massoneria deviata e dell’eversione nera, pezzi di Stato e dei Servizi infedeli erano impegnati in quel progetto eversivo della struttura statale che – in linea di continuità con un percorso iniziato più di vent’anni prima, svezzato tra i Moti di Reggio e le stragi di Stato – si proponeva di ridisegnare l’Italia attraverso un progetto regionalista nel quale – come teorizzerà il futuro ideologo della Lega, Gianfranco Miglio – poteri come quelli di mafia e `ndrangheta avrebbero dovuto trovare legittimità e costituzionalizzazione. Un progetto che aveva in Licio Gelli il principale regista, ma che per essere realizzato aveva necessità di rastrellare voti. Ed è questa la contropartita che l’uomo chiave della P2 – racconta ai magistrati di Lecce prima e di Palermo poi, il pentito della Sacra Corona Unita, Marino Pulito – aveva chiesto in cambio dell`aggiustamento di un processo a carico dei fratelli Gianfranco e Riccardo Modeo, di cui Pulito era il fidato luogotenente. A propiziare il contatto fra Gelli e l’uomo dei clan pugliesi sarebbe stato l’esponente della Lega meridionale Vincenzo Serraino, che assieme a Pulito – si legge nelle carte del processo a carico di Andreotti – avrebbe incontrato Gelli almeno due volte nei primi mesi del 1991 presso l’hotel Ambasciatori di Roma. Stando al racconto del pentito, Gelli gli avrebbe chiesto di fargli avere la copia degli atti del processo, e in cambio del suo interessamento avrebbe chiesto che i clan pugliesi si attivassero per fargli avere circa 4.000 voti in Calabria. Circostanze confermate anche dalle conversazioni tra Pulito e Serraino, intercettate dagli inquirenti il 26 e il 27 gennaio, il 20 marzo e il 14 maggio del 1991. Chiacchierate da cui emergeva che Gelli era sicuro di riuscire ad ottenere una revisione del processo grazie all’intervento del senatore Andreotti. Un secondo incontro con Gelli si sarebbe svolto in seguito – racconta Pulito ai pm – alla presenza non solo di Serraino, ma anche di Salvatore Sigillo, uomo ritenuto legato alle `ndrine calabresi e chiamato a garantire personalmente al Gran Maestro l’effettiva contropartita in voti. In quell’occasione, Gelli gli avrebbe fatto sapere che contrariamente a quanto in un primo momento ritenuto dallo stesso Pulito, competente a decidere era la Corte di appello di Lecce, e non la Corte di Cassazione, ma in ogni caso erano già stati attivati i canali necessari per ottenere la revisione.
«A un certo punto di tale conversazione – annota il pm nella sua memoria – Gelli telefonò in presenza del Pulito, del Serraino e del Sigillo a Giulio Andreotti, chiamandolo per nome – Giulio – e ricevendo assicurazioni sull’intervento dello stesso per l’aggiustamento del processo». Anche in questo caso si tratta di informazioni supportate da indagini della Dia romana, che all’epoca monitorava il Gran Maestro, nonostante le precauzioni adottate dallo stesso Gelli, che si premurava addirittura di avere di un duplice impianto telefonico, uno collegato con il centralino dell’albergo e il secondo collegato direttamente con l’esterno, senza possibilità di registrazione delle utenze chiamate e attivabile, di volta in volta, mediante allacci volanti. Un trucchetto già sperimentato per Gelli, che – annota il pm – utilizzava questa modalità di comunicazione occulta con l’esterno già «dalla fine degli negli anni 70, quando alloggiava all’hotel Excelsior di Roma, mantenendo contatti telefonici riservati con numerosi esponenti di vertice delle istituzioni e del mondo politico tra le quali lo stesso Andreotti (…) i cui rapporti con Gelli erano – si legge nelle carte – risalenti nel tempo, intessuti di frequentazioni personali, di contatti telefonici, all’interno di un coacervo di comuni interessi illeciti che trovavano la loro coniugazione all’interno della massoneria deviata della quale facevano parte oltre che Gelli e Michele Sindona, riciclatori dei proventi illeciti di Cosa nostra, anche esponenti di vertice di Cosa nostra, tra i quali Stefano Bontate e Giacomo Vitale, quel Bontate e quel Vitale che si incontrarono almeno due volte con Giulio Andreotti nel 1979 e nel 1980». Tutti episodi che trovano conferma nelle parole di un altro pentito, Savatore Annacondia, appartenente alla criminalità organizzata pugliese, poi divenuto capo di un gruppo autonomo che aveva rapporti con Cosa nostra, tramite il suo “padrino” Michele Rizzi e con la `ndrangheta, attraverso Mimmo Tegano.

LE DICHIARAZIONI DI ANNACONDIA E COSTA
Nei primi anni Novanta – riferisce il collaboratore ai pm – il suo gruppo criminale si era unificato con quello dei fratelli Modeo, dunque tanto con loro come con lo stesso Pulito, Annacondia avrebbe avuto rapporti intensi, tanto da essere in grado di riferire fatti e circostanze ma anche il peso di ogni singolo associato. Ed è probabilmente proprio in ragione di tale rapporto che il collaboratore – che allora non era ancora tale – sarebbe stato il depositario delle confidenze dei fratelli Modeo, preoccupati dal fatto che la magistratura fosse venuta a conoscenza degli incontri romani e del loro contenuto. Rivelazioni che il pentito fa ben prima che Pulito inizi a collaborare con i magistrati e trovano ulteriore conferma nel racconto del pentito Gaetano Costa, elemento di rilievo della criminalità organizzata di Messina integrata nella ‘ndrangheta calabrese. Sarà lui a riferire ai magistrati – si legge nelle carte – «che era abbastanza notorio che Licio Gelli si interessasse personalmente dei problemi che potevano avere, soprattutto in Puglia, i componenti delle più grosse organizzazioni criminali e che ciò gli fu confermato, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, da Riccardo Modeo (…) in particolare il Modeo – il quale al fratello Claudio o Gianfranco era stato condannato per un omicidio alla pena di 22 o 24 anni di reclusione – riferì degli incontri tra Gelli e Marino Pulito per l’aggiustamento del processo tramite l’interessamento di Giulio Andreotti». Ma Costa sarà anche l’uomo che rivelerà ai magistrati che anche le `ndrine, in particolare i Piromalli, potevano contare su certi rapporti: «In Calabria – dirà Costa in pubblica udienza – era notorio nella “famiglia” di Piromalli, che poteva utilizzare alcuni uffici della Cassazione in particolare nella persona di Carnevale, del dottor Carnevale. All`interno di Cosa nostra c`era questo tema che il signor Andreotti era molto amico, e intimo di Carnevale e se occorreva si poteva utilizzare questa fonte».

NARDINI, ANDREOTTI E LA “GRAN CORTESIA”
CHIESTA A MOMMO PIROMALLI
Ma se per i collaboratori Pulito, Annacondia e Costa, Andreotti era in grado di influire sui giudici, per un altro pentito – Antonino Mammoliti, figlio di Francesco, capobastone di Castellace e fratello di Saverio, detto “don Saro”, che dal padre ha ereditato il comando della consorteria – Andreotti sarebbe stato in grado di arrivare anche alle `ndrine, o quanto meno a quella guidata all’epoca da Mommo Piromalli, cui Mammoliti era molto vicino. A don Mommo Piromalli, all’epoca indiscusso dominus della Piana di Gioia Tauro, si sarebbero infatti rivolti emissari del boss di Palermo, Stefano Bontate, per chiedergli una “grande cortesia”: interessarsi per far cessare le pressioni sul petroliere romano Bruno Nardini, divenuto oggetto di minacce e richieste estorsive dopo aver impiantato alcuni depositi di carburante a Vibo Marina. Richieste che – avrebbero saputo i siciliani dai Servizi di Intelligence – arrivavano dal comprensorio di Palmi. Mammoliti, presente a quell’incontro, ha raccontato ai magistrati che gli uomini del boss di Palermo avrebbero spiegato che «il petroliere era forse – riporta la memoria del pm – cognato o socio del presidente Giulio Andreotti, per tale ragione la cosa stava particolarmente a cuore al Bontate, in quanto – come riferirono testualmente i due palermitani – «il presidente Andreotti era cosa loro». Stando al racconto del pentito, don Mommo avrebbe quindi assicurato ai siciliani che avrebbe provveduto personalmente a sistemare la cosa, quindi avrebbe mandato a chiamare Gaetano Parrello, “u lupu”, capo riconosciuto del circondario di Palmi, cui avrebbe riferito quanto raccontato dai siciliani. Subito dopo – ha riferito Mammoliti – le minacce a Nardini avevano avuto fine.

SENTENZE E SEGRETI
Contatti, segreti, scambi di favori emersi nel lungo processo a carico di Andreotti, ma che la sentenza che lo ha assolto ha lasciato cadere nel dimenticatoio della storia. Il pentito Mammoliti – in questa circostanza – non è stato ritenuto sufficientemente attendibile, le parole di Costa, Annacondia e Pulito – che pure contribuiranno con le loro dichiarazioni alla condanna di centinaia di boss e affiliati – nonostante fossero straordinariamente coincidenti, non sono state ritenute dai giudici sufficienti «a dimostrare che il senatore Andreotti avesse ricevuto da Gelli una richiesta di intervenire per assicurare l’esito positivo del processo di revisione della condanna riportata dai fratelli Riccardo e Gianfranco Modeo, né, tantomeno, che Andreotti avesse effettivamente compiuto azioni volte a conseguire tale risultato». Altri misteri, altri segreti, che assieme a tanti, troppi altri, Giulio Andreotti si è portato nella tomba. (0050)

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