REGGIO CALABRIA «Sono scoppiato a piangere e li ho implorati di suggerirmi cosa dovessi dire, non ce la facevo più a stare in galera». Quando il capitano Saverio Spadaro Tracuzzi inizia a parlare del colloquio investigativo avuto in carcere con l’ex comandante del Ros di Reggio Calabria, Stefano Russo, e l’ex funzionario della Mobile, Renato Cortese, in aula cala un silenzio quasi tombale. Il brusio tra i banchi degli avvocati scema fino ad esaurirsi, dalle gabbie non si avverte neanche un sussurro, mentre il pm Beatrice Ronchi si irrigidisce nella toga. Rispondendo alle domande del suo avvocato, il capitano – sguardo fisso, concentrato – ricorda «dopo diversi mesi di detenzione, a giugno, luglio del 2011 ricevetti in carcere un’improvvisa quanto inaspettata visita da parte di Russo e Cortese. Questi due emissari di Pignatone venivano, mi dissero, per chiarire la mia posizione». Lo stesso Cortese avrebbe detto testualmente «noi sappiamo che non hai fatto nulla, che magari sei stato un po` leggero, ma non hai fatto nulla», riferisce l’ufficiale, ripercorrendo passo passo quei momenti in cui si era quasi illuso – racconta – che la sua posizione fosse stata riconsiderata. Così come l’immenso sconforto, deflagrato in una crisi di pianto, che avrebbe provato nel momento in cui si è reso conto che era lungi dall’essere così. «Ci devi dire dei rapporti di Luciano con magistrati, funzionari di polizia o dei servizi»: questa sarebbe stata la richiesta dei due “emissari” al detenuto. «Il loro obiettivo erano i giudici, Mollace, Cisterna, Neri, mi fecero capire che erano quelli i loro obiettivi», quasi scoppia Spadaro Tracuzzi. Ma dal capitano, all’epoca detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, Russo e Cortese – stando al suo racconto – avrebbero voluto sapere di più, avrebbero voluto anche il nome di un funzionario dei servizi con cui Lo giudice sarebbe stato in contatto. «Io non sapevo, poi loro mi suggerivano Man.. Man.. e io completai Mancino». È stato solo l’improvviso suono di un nastro che si riavvolge e di una registrazione che scatta a mettere sull’avviso Spadaro Tracuzzi che in quel momento – afferma – avrebbe deciso di interrompere immediatamente il colloquio. Una vicenda che all’epoca denunciata dei legali dell’ufficiale e che aveva portato all’apertura di un fascicolo contro i due funzionari, rapidamente archiviato dalla Procura campana, in ragione – si sottolineava nel provvedimento di archiviazione – del particolare stato emotivo avrebbe portato il capitano a fare congetture nei confronti di Cortese e Russo che, al momento dei fatti, sarebbero cadute. In altre parole, a mal interpretare le intenzioni.
MEMORIALE ACQUISITO COME “FATTO STORICO”
Tuttavia, alla luce del memoriale con cui il pentito che ormai da giorni si è reso irreperibile, Nino Lo Giudice accusa pesantemente quella che definisce «una cricca di magistrati» responsabile di averlo indotto ad accusare «persone innocenti», fra cui gli stessi giudici di cui parla Spadaro Tracuzzi, le parole del capitano acquistano un significato diverso. Nonostante per decisione del Tribunale, il documento con cui il collaboratore ritratta tutte le sue precedenti rivelazioni e accusa pesantemente l’ex capo della Dda reggina, oggi alla guida della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, il suo aggiunto, tuttora a Reggio Calabria, Michele Prestipino, e il sostituto Beatrice Ronchi, da tempo trasferita a Bologna, ma applicata a Reggio proprio per il processo alla cosca Lo Giudice, sia stato acquisito solo “come fatto storico”, è pressoché innegabile la curiosa coincidenza fra la confessione che il Nano ha fatto pervenire e l’episodio denunciato – oggi in aula come per lettera ormai quasi due anni fa – dal capitano Spadaro Tracuzzi. Elementi che però – almeno allo stato – il Tribunale presieduto da Silvia Capone ha deciso di non prendere in considerazione. Mediando fra l’istanza di acquisizione presentata dall’avvocato Giuseppe Nardo, cui si sono associate tutte le difese, e l’opposizione del pm Ronchi che – trincerandosi dietro «le considerazioni dell’Ufficio di Procura» – ha chiesto di non recepire il materiale «fino a quando non sarà possibile corredarlo degli accertamenti necessari per vagliarne l’attendibilità» , il Tribunale ha disposto che il memoriale e il video del Nano vengano messi agli atti, ma solo a testimonianza del fatto che sono pervenuti. Traduzione, il memoriale c’è ed entra nella storia del processo contro la cosca Lo Giudice, ma – al momento – il collegio decide di non valutarne il contenuto. Una decisione controversa, che non scioglie il nodo sullo scottante documento, che in più di un’aula e un procedimento sta provocando serie ripercussioni, ma le rimanda a data da destinarsi. Allo stesso modo, non solleva il pm Ronchi dalla scomodissima posizione che oggi le viene dall’essere rappresentante della pubblica accusa nel dibattimento che aveva nel Nano il principale testimone, e al contempo, una delle protagoniste delle nuove rivelazioni con cui Nino Lo Giudice non solo ritratta quanto detto in passato, ma confessa di essere stato indotto – anche dalla sostituto – a metterlo a verbale e ripeterlo nei dibattimenti.
«RONCHI SAPEVA CHE LUCIANO ERA
LA MIA FONTE CONFIDENZIALE»
Una situazione delicatissima che si traduce nel clima teso dell’aula. Anche perché, a mettere in difficoltà la Ronchi, potrebbe esserci anche un altro particolare che oggi, nel corso del suo esame, il capitano ha deciso di rivelare. «Tutti sapevano che Luciano Lo Giudice era la mia fonte, anche la Ronchi lo sapeva». A rivelarlo alla sostituto, all’epoca in servizio alla Dda di Reggio Calabria, sarebbe stato lo stesso capitano, nel corso delle indagini su un giro di macchinette da gioco contraffatte gestito – si ipotizzava all’epoca – dai fratelli Cedro. Un’inchiesta che sarebbe stata alimentata anche dalle confidenze che Luciano Lo Giudice avrebbe fatto al capitano e «io – sottolinea – alla Ronchi questo all’epoca l’avevo detto». E a dimostrazione del lavoro che la pm e quello che all’epoca era un ufficiale in servizio alla Dia avrebbero svolto gomito a gomito per quell’indagine sui fratelli Cedro, ci sarebbe anche una mail che la Ronchi avrebbe inviato alla Dia, indirizzandola al capitano, con cui gli comunicava che il gip non aveva autorizzato le intercettazioni telefoniche a carico dei due fratelli. Circostanze – questa, come il colloquio investigativo del 2011 – che la sostituto ha preferito non approfondire e sulle quali non ha fatto alcuna domanda, limitandosi ad affermare che si tratta di «dichiarazioni che arrivano da un soggetto imputato, dunque per legge autorizzato a mentire». Una questione che toccherà infine al Tribunale sciogliere in sede di decisione, quando sul destino di Spadaro Tracuzzi peseranno anche le lunghe e dettagliate spiegazioni con cui ha cercato di chiarire il suo rapporto con Luciano Lo Giudice.
REGGIO CALABRIA «Ho conosciuto Luciano nel 2002, nel cantiere nautico di Spanò, un posto frequentato da funzionari di polizia e magistrati, perché è lì che lui stava allestendo una barca. All’inizio ci salutavamo e nulla di più, poi Spanò – con il quale il capitano ha nel tempo instaurato un rapporto di amicizia – me lo volle presentare, dicendomi che avrebbe potuto essermi utile nel mio lavoro. All’epoca ero alla Catturandi». Non si discosta da quanto ha dichiarato negli ultimi anni, la lunghissima deposizione dell’ufficiale dei carabinieri, che da Luciano avrebbe avuto nel tempo indicazioni utili sia per indagini minori come quelle sui combattimenti clandestini fra cani o su sospetti abusi edilizi e non, sia per la cattura di latitanti, come uno dei Ficara, o lo stesso Pasquale Condello. Ma sul punto – ha voluto specificare il capitano – «c’era una specie di veto, perché se ne occupava solo il Ros. Ovviamente chiesi notizie a Luciano anche su Condello, ma inizialmente
mi disse che probabilmente era all’estero. Io ho insistito anche perché sapevo che il Ros lavorava su Reggio, inoltre ero in contatto con altre fonti confidenziali di provata esperienza che lo davano in città. Anche Renato Panvino mi spronava a raccogliere notizie sul Supremo». E proprio a Panvino – all’epoca pezzo da novanta della Questura di Reggio Calabria – Spadaro Tracuzzi, all’epoca trasferito al Noe, dunque non in condizioni di fare indagini sui latitanti – avrebbe passato più di un’informazione. Più dello spirito di corpo, per il capitano all’epoca avrebbe infatti pesato «l’antipatia che a pelle provavo nei confronti di chi mi aveva sostituito alla Catturandi e dei responsabili del Ros». E così, Spadaro Tracuzzi avrebbe passato le indicazioni di Luciano non solo ai suoi diretti superiori al Noe, «come il maresciallo Papaleo, al maresciallo Salvatore Vitale, definito “il mio delfino alla Catturandi”», al «capitano Lardieri e a qualche altro sottoposto dei Ros», ma anche alla Polizia. Ma addirittura, Spadaro Tracuzzi avrebbe informato delle sue mosse e ricevuto incoraggiamenti anche dal capitano Ultimo «lui mi diceva: “fratelllo, continua così ma quando serve chiamami e organizziamo la cattura”, ma io dovevo dare conto ai miei superiori – dice con una punta di rimpianto Spadaro Tracuzzi – quindi passavo le informazioni ai Ros».
LA DIFESA
Confidenze in cambio delle quali nulla avrebbe fatto per Luciano Lo Giudice, se non «come mi hanno sempre spiegato i miei vecchi comandanti, dimostrargli che ero vicino al suo problema». Certo, Luciano lo avrebbe chiamato un paio di volte – in occasione di un controllo su strada e di una perquisizione – ma lui non avrebbe fatto nulla per tutelarlo, se non informarsi di quanto stesse accadendo. L’unico “favore” che il capitano avrebbe fatto a Luciano sarebbe stato quello di metterlo in contatto con una dottoressa conosciuta a Roma, specializzata proprio nella sindrome di cui è affetto «l’unico figlio maschio che ha e per il quale stravede». In cambio, Luciano si sarebbe sdebitato – confessa l’ufficiale – pagando i biglietti aerei per Roma. Ma , afferma, null’altro avrebbe chiesto o ottenuto. Imputato per concorso esterno in associazione mafiosa perché accusato di aver favorito la cosca Lo Giudice in cambio di regali e favori, Spadaro Tracuzzi nega di aver mai ricevuto da Luciano le automobili o le prebende che la Procura gli contesta. Ha chiesto – ammette – a Luciano Lo Giudice di intercedere per lui con una concessionaria di Milano per una Porsche Cayenne di seconda mano, optando poi per un altro modello, ma avrebbe pagato tutto con il ricavato dalla liquidazione anticipata di una polizza sulla vita. Di più, aggiunge, dai Lo Giudice nulla avrebbe ottenuto se non un paio di alberi di Natale e un paio di cocomeri al chiosco di Nino. E proprio sul Nano, il capitano ci tiene a sottolineare: «Quando io andavo a trovare Luciano in ufficio, non c’era mai, né assisteva ai miei colloqui con il fratello. Una volta l’ho incontrato lì in via Missori e Luciano mi ha portato in una stanza attigua per parlare». Certo, dice Spadaro Tracuzzi, era noto che la famiglia Lo Giudice avesse avuto problemi con la giustizia, che il padre e il fratello fossero stati ammazzati, «si sapeva che non erano personaggi specchiati della Pubblica Amministrazione». Ma afferma «io avevo voglia di fare arresti, anche importanti». E poi – aggiunge in un passaggio – «per me Luciano era un imprenditore, uno che comprava e vendeva bar, ma non l’ho mai reputato un mafioso». Valutazioni che toccherà al Tribunale fare, mentre il procedimento contro il clan Lo Giudice si complica di capitolo in capitolo. (0090)
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