TORINO Erano le undici di sera del 26 giugno 1983. Il magistrato più importante di Torino, il procuratore capo Bruno Caccia, stava portando a passeggio il cane quando in via Sommacampagna, ai piedi della collina, due killer su una 128 lo freddarono con 17 colpi di pistola. Era domenica e aveva deciso di lasciare a riposo la scorta. Trent`anni dopo l`omicidio, i figli Paola, Maria Cristina e Guido chiedono di riaprire il processo negli stessi giorni in cui Torino si prepara a commemorare la più illustre vittima della `ndrangheta sotto la Mole. Cinque gradi di giudizio, conclusi con la condanna del boss Domenico Belfiore, ritenuto il mandante, non sono bastati a far luce sul delitto di un «nitido esempio di dedizione allo Stato, un uomo con la giustizia nel cuore», come i suoi colleghi, dal procuratore generale Marcello Maddalena al procuratore capo Giancarlo Caselli, lo hanno ricordato in tutti questi anni. «Ci sono ancora troppi buchi», dice l`avvocato Fabio Repici, il legale della famiglia Caccia. Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo piemontese scorre il sangue del terrorismo e della criminalità organizzata. Ai principali quotidiani nazionali arrivano le prime rivendicazioni: da principio le Brigate Rosse, poi Prima Linea e persino in Nar. La matrice, però, si rivelò falsa e si fa strada l`ipotesi del crimine organizzato. «Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di verità», dice l`avvocato Repici. Come il materiale sequestrato a casa di Rosario Cattafi, avvocato milanese vicino all`estrema destra e alla mafia in carcere all`Aquila in regime di 41 bis.
Sospetti, ombre, dubbi, che si intrecciano alle indagini portate avanti in quegli anni da Caccia. «È improbabile che Belfiore abbia agito da solo e senza movente», insiste il legale, che ipotizza il «coinvolgimento in concorso di soggetti calabresi e catanesi». Trent`anni dopo quei dubbi sono scritti nero su bianco nella richiesta che il legale presenterà alla procura di Milano, perché il caso venga riaperto. «Per noi vorrà dire riaprire ferite per altro mai chiuse», spiega all`Ansa Paola Caccia, insegnante di scuola media impegnata in questi giorni con gli esami di terza media. «Ma lo sentiamo come un dovere, come un bisogno di giustizia per il nostro Paese. Ed è anche un modo per sentirci ancora vicini a papà, che per tutta la sua vita ci ha insegnato i valori della coerenza e della verità». Gli stessi che verranno rievocati nei prossimi giorni al Palazzo di giustizia, intitolato proprio a Bruno Caccia, nelle commemorazioni – il 27 giugno interverrà anche Roberto Saviano – del magistrato. Che, per la prima volta, sarà ricordato anche con una cerimonia in municipio, in Sala Rossa. Una iniziativa che «onora la memoria di nostro padre che ci fa profondamente piacere», hanno scritto i figli di Caccia in una lettera aperta, ma che non può ridursi soltanto a retorica. Serve, sostengono, una «analisi storica». (0040)
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