REGGIO CALABRIA Ci sono voluti tre anni, ma alla fine il procuratore Nicola Gratteri ce l’ha fatta. Per la seconda volta, ha individuato e arrestato Roberto Pannunzi, il narcobroker per eccellenza, anello di congiunzione privilegiato fra i narcos latinoamericani e le famiglie di ‘ndrangheta calabrese. Era già riuscito ad acciuffarlo nel 2004, quando – dopo averne seguito gli spostamenti, gli affari ed i traffici attraverso cinque paesi e due continenti – lo aveva individuato a Madrid, dove il “broker dei due mondi” era stato arrestato mentre era in macchina con il figlio Alessandro. Il suo destino – avrebbero deciso i giudici italiani di lì a poco – sarebbe stato una condanna a lunga pena detentiva, che avrebbe dovuto lasciarlo dietro le sbarre, in regime di 41 bis per almeno 16 anni e mezzo. Ma in galera, Bebè Pannunzi ci è rimasto molto poco.
La curiosa malattia di Bebè
È l’8 aprile 2010 quando gli inquirenti – infine – ammettono: il re del narcotraffico è scappato. Ha fatto perdere le sue tracce la notte del 30 marzo, dileguandosi dalla clinica “Villa Sandra” di Roma, dove era ricoverato. In ospedale Pannunzi ci era finito nel dicembre precedente, dopo una opportuna diagnosi di “cardiopatia ischemica postinfartuale”, che convince i giudici del Tribunale di sorveglianza di Bologna a concedere gli arresti domiciliari. Un verdetto anomalo, a parere di molti, perché già nel 1999 Pannunzi aveva fatto perdere le tracce, fuggendo dalla clinica romana in cui era ricoverato. Inoltre, i detenuti in regime di carcere duro, non devono – dice la legge – essere ricoverati in normali ospedali, ma nei reparti specializzati del carcere. Il loro trasferimento in strutture esterne può essere disposto soltanto «ove siano necessari cure o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti». Ma, curiosamente, per Pannunzi il Tribunale dispone diversamente. Al principale narcobroker su piazza viene concessa la detenzione domiciliare, che non consente il piantonamento né un monitoraggio costante. Vengono stabiliti solo controlli saltuari delle forze dell`ordine. «Nell`arco temporale della sua permanenza in clinica – riferisce alla Commissione parlamentare antimafia, l`allora comandante provinciale dei Carabinieri di Roma, colonnello Maurizio Mezzavilla – sono stati effettuati ben 65 controlli, di cui abbiamo l`elenco. Il detenuto quindi veniva monitorato, solo che, al di là del controllo, che può durare 15-20 minuti, era nella condizione, nelle 24 ore, di organizzarsi e di potersi allontanare, cosa che poi è avvenuta».
Lo sfogo di Gratteri
Una fuga che aveva fatto imbestialire il pm della Dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri, che dopo essersi imbattuto in Pannunzi in tutte le indagini su droga e narcotraffico condotte, aveva raccolto prove sufficienti su Pannunzi da riuscire a farlo condannare a sedici anni e mezzo di carcere. «Prima di parlare di voler sconfiggere la mafia bisogna cambiare i codici, bisogna creare un sistema di certezze, di automatismi, bisogna diminuire il potere discrezionale dei giudici. Bisogna fare tante cose se si vuole creare l`inversione di tendenza», aveva commentato allora Gratteri.«È il sistema giudiziario – aveva aggiunto – è il sistema detentivo, l`ordinamento penitenziario che consentono certe cose. Le indagini su Pannunzi si sono basate su intercettazioni ambientali e telefoniche e sul sequestro di cocaina per centinaia di chili. Nel momento in cui dimostro con la viva voce dei protagonisti che questi importavano tonnellate di cocaina in Europa, il sistema penale e processuale non deve consentire una condanna a 16 anni, ma a 30. E se il detenuto sta male si cura in carcere. Per questa tipologia di reati e di persone il ravvedimento è una ipocrisia».
Pannunzi, uomo di tutti
L`analisi di Gratteri non si basa sull’amarezza che può provocare il vedersi volatilizzare un detenuto – recidivo nell`evasione – condannato dopo anni di indagini. Le mosse e i traffici di Pannunzi, Gratteri li ha studiati per anni e sa che il narcobroker di riferimento per ‘ndrine e clan di mezza Italia ha agganci e contatti così potenti da essere in grado di far sparire le sue tracce definitivamente. Ufficialmente imprenditore, con un passato da dipendente Alitalia, pur non essendo formalmente un affiliato, tanto per la ‘ndrangheta come per Cosa nostra, Pannunzi è un partner ritenuto affidabile. Per tutti, si è messo “a disposizione”, ha organizzato traffici e spedizioni, così come ha contrattato i “chimici” in grado di raffinare la droga. Per gli inquirenti, ad esempio, è stato lui suggellare il patto tra la cosca siciliana degli Alberti e i narcotrafficanti marsigliesi, convincendo il chimico Renè Bousquet a trasferirsi a Palermo e impiantare la prima raffineria di eroina. Un favore fatto ai boss Gerlando Alberti e Gaetano Badalamenti prima di trasferirsi in Colombia e avviare lì la gestione del mercato in collegamento con l`Italia. Allo stesso modo, pare sia stato Pannunzi a contrattare per la ‘ndrina dei Morabito, radicata in Lombardia, i chimici francesi Alain Mazza e Gilles Pairone, installati a Corsico dai clan calabresi per produrre eroina da scambiare sul mercato americano con la cocaina colombiana.
L’inchiesta Igres
Traffici intricati, disegnati in modo spregiudicato sulle rotte intercontinentali, con Roberto Pannunzi nel ruolo di grande regista.Abile nel mimetizzarsi, il re del narcotraffico sembra essere totalmente a suo agio in qualsiasi contesto. Scrivono in proposito gli inquirenti nelle oltre mille pagine dell`ordinanza di custodia cautelare dell`inchiesta Ingres, che porterà nel 2004 alla condanna del narcobroker: «Un particolare non di poco conto era rappresentato dai linguaggi utilizzati dal Pannunzi (ed anche dal figlio Alessandro), retaggio della vita “movimentata” dell`indagato: questi, infatti, romano di nascita ma con moglie ed origini reggine, a seconda dell`interlocutore che lo contattava, lo si sentiva agevolmente dialogare tanto in italiano, quanto in stretto dialetto della Locride od anche in perfetto spagnolo».Sa parlare con tutti nel linguaggio più adeguato e sa entrare in sintonia con interlocutori diversi nei più diversi contesti. È legato alla cosca Macrì di Siderno, ma in realtà è broker al di sopra dei locali di `ndrangheta, in grado di comprare partite di cocaina per più famiglie. Ha lavorato per i Marando, per i Trimboli, per i Barbaro di Platì. Secondo gli inquirenti, Pannunzi godeva di «stima, affetto e prestigio da parte di tutti quei sodalizi criminali che avevano come oggetto della propria attività il traffico internazionale di sostanze stupefacenti». Una considerazione che gli ha permesso addirittura di fungere da raccordo tra le ‘ndrine di Gioiosa Jonica e quelle di Platì, quando per il boss Pasquale Marando divenne necessario darsi alla macchia.«Non è un caso – annotano gli inquirenti – che il Marando avesse scelto, come rifugio per la sua latitanza e per sfuggire ad altri “pericoli”, la zona di influenza della famiglia mafiosa degli Aquino – Coluccio, Marina di Gioiosa Jonica, al posto dell`impervio e controllatissimo territorio pedemontano di Platì; verosimilmente elemento di raccordo tra le `ndrine di Marina di Gioiosa Jonica e quelle di Platì era sempre Pannunzi Roberto, legato negli anni a queste famiglie con la sua “preparazione” nel settore del traffico di droga…».E Pannunzi nel mondo dei narcos non solo era un esperto equanimemente riconosciuto, ma anche un uomo che sapeva guardare lontano, racconta l`indagine Ingres che fu proprio Pannunzi ad aver dato il via ad un nuovo modo di gestire i traffici internazionali di stupefacenti, non più per conto di un unico clan, ma in nome e per conto di più ‘ndrine unite in joint venture. Un cartello in grado di mettere insieme liquidità importanti ed un peso specifico considerevole in termini di influenza. Un cartello, capace di avere maggiore forza contrattuale ed accaparrarsi cos
ì le partite migliori di cocaina. Un cartello in nome del quale Roberto Pannunzi era l`unico chiamato a trattare. E non a caso.
I parenti colombiani
Il narcobroker dei due mondi aveva contatti diretti con i cartelli colombiani, trattava da pari a pari anche con Salvatore Mancuso, ex capo dei paramilitari di destra delle Auc e leader del narcotraffico in Colombia, oggi in carcere negli Stati Uniti. Un`alleanza cementata anche dal matrimonio del figlio Alessandro con la figlia prediletta del capo di una nota famiglia del cartello di Medellin.Di lui scrivono gli inquirenti: «Il Pannunzi, intermediario – commissionario degli affari, era colui che prendeva contatti ed accordi diretti con i cartelli fornitori di cocaina, stabiliva i quantitativi da commercializzare in base ai capitali disponibili ed indicava le modalità di introduzione della droga in territorio nazionale, assegnando i compiti ai vari “collaboratori”. Il latitante, che dalla prima decade del mese di gennaio 2001 si trasferiva, dalla Spagna in Colombia, rimaneva sempre il fulcro dell`organizzazione pur essendo il più lontano di tutti i sodali».Un personaggio potente e misterioso, dai mille agganci e dai mille contatti, che per l’ennesima volta – dopo la fuga – ha avuto assicurato appoggio logistico e documenti che gli hanno permesso di iniziare una nuova vita e, soprattutto, nuovi affari in Colombia. Una fuga terminata in un centro commerciale di Medellin, dove il regista mondiale del narcotraffico è stato individuato e fermato. Questa sera, alle 20.30 atterrerà in Italia, dopo l’espulsione per direttissima chiesta e ottenuta dagli inquirenti italiani. Ad aspettarlo troverà il procuratore Nicola Gratteri, che lo attende da quel 30 marzo 2010.
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