Skip to main content

Ultimo aggiornamento alle 8:51
Corriere della Calabria - Home

I nostri canali


Si legge in: 9 minuti
Cambia colore:
 

La bugia dell`avvocato a Lo Giudice

REGGIO CALABRIA Nessuno di loro è o è stato imputato. Se contro l’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna, sono state formalizzate delle accuse poi archiviate su richiesta della stessa Procura che…

Pubblicato il: 24/09/2013 – 20:48
00:00
00:00
Ascolta la versione audio dell'articolo
La bugia dell`avvocato a Lo Giudice

REGGIO CALABRIA Nessuno di loro è o è stato imputato. Se contro l’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna, sono state formalizzate delle accuse poi archiviate su richiesta della stessa Procura che aveva aperto un fascicolo a suo carico, al procuratore generale Francesco Mollace non è mai stato mosso alcun addebito. Eppure è sui due magistrati e sui loro presunti rapporti con Luciano Lo Giudice che si è concentrata l’attività istruttoria dell’odierna udienza del processo “Do ut des”, il procedimento che vede alla sbarra presunti capi e gregari del clan Lo Giudice. Un’udienza delicata, come testimoniato dalla presenza in aula del procuratore capo Federico Cafiero de Raho, che ha voluto affiancare la sostituto Beatrice Ronchi – da tempo trasferita a Bologna, ma applicata a Reggio Calabria proprio per il procedimento contro il clan Lo Giudice. Un sostegno non meramente simbolico. Per larghi tratti è stato il procuratore capo a condurre personalmente il controesame di un teste chiave, l’avvocato Giovanni Pellicanò. Per oltre dieci anni legale, ma soprattutto – ha tenuto lui stesso a precisare – amico di Luciano Lo Giudice, è stato lui ad assistere quello che oggi viene considerato la mente imprenditoriale del clan nel 2009, quando Luciano finisce in carcere per intestazione fittizia di beni. E sono le loro conversazioni in carcere, intercettate dagli investigatori, che il pm Ronchi ha voluto valorizzare come una fondamentale prova della capacità di Luciano Lo Giudice di entrare in contatto con le istituzioni.
«All’epoca Luciano Lo Giudice, per mia conoscenza anche tecnica,  era un imprenditore incensurato», afferma l’avvocato Pellicanò. Certo, spiega il legale, «quello dei Lo Giudice era un nome noto in città ai tempi della guerra di `ndrangheta, ma lui mi aveva spiegato che dopo il conflitto la sua famiglia aveva deciso di tirarsi fuori dalle spartizioni criminali».
Un argomento che i due affrontano – ricostruisce l’avvocato – quando a Pellicanò tocca preparare un ricorso al Tar contro il rigetto della richiesta di porto d’armi sportivo presentata da Luciano, ma soprattutto dopo l’attentato che rade al suolo il bar che il suo amico e assistito dell’epoca aveva aperto nei pressi dello stadio. «Parlando con Luciano, mi disse che l’attentato era il prezzo da pagare per essersi inserito in quella zona senza chiedere permesso ai Labate, che, com’è a tutti noto, hanno nel Gebbione la propria storica zona di competenza. Mi riferì però che qualcuno a lui vicino aveva incontrato i Labate e loro avevano smentito di essere i responsabili», ricorda Pellicanò. E aggiunge: «Ricordo che commentai: “Non sei neanche capace di scoprire chi è stato”».
Tutte considerazioni che, in seguito all’arresto di Luciano nel 2009, portano il legale a riflettere a lungo sul motivo di una custodia cautelare tanto prolungata e  che non manca di esternare a Luciano, all’epoca recalcitrante detenuto che si riteneva vittima di un errore giudiziario e scalpitava per uscire. A tutti i costi. «Lui mi disse che voleva scatenare il finimondo – rammenta Pellicanò – perché si riteneva vittima di una detenzione ingiusta. Voleva che i magistrati che lui conosceva, e pensava lo considerassero una brava persona, venissero a conoscenza della sua situazione e dell’ingiustizia che riteneva stesse subendo». Luciano – sottolinea il legale – all’epoca era convinto che il dirigente della Questura, Renato Panvino, «gli stesse facendo pagare il mancato arresto di Condello». Un funzionario con cui Lo Giudice avrebbe avuto anche un duro scontro, per il quale avrebbe chiesto e ottenuto delle scuse. «All’epoca mi disse che aveva le registrazioni della visita di Panvino a casa sua, dove c’era installato un sistema di sicurezza, e che al momento giusto le avrebbe tirate fuori». Erano questi – secondo l’avvocato – i motivi che avrebbero spinto Luciano a credersi  vittima di una macchinazione a suo danno e che avrebbe voluto rivelare agli uomini di legge «con cui pensava di essere in buoni rapporti».
Ed è proprio sui presunti rapporti istituzionali di Luciano Lo Giudice con i magistrati Alberto Cisterna e Francesco Mollace che più si sono concentrate tanto le domande del procuratore capo Cafiero De Raho, come del sostituto Ronchi. Incalzato a rispondere sul punto tanto come legale, tanto come amico di Luciano, Pellicanò chiarisce subito: «Io non ho mai visto Luciano con Cisterna o Mollace. Sapevo che erano in rapporti perché è stato lui a riferirmelo e che erano nati dai comuni interessi nell’ambito nautico. Tutti e tre avevano la barca al cantiere nautico di Antonino Spanò». Rapporti che, nonostante un’espressa richiesta di Pellicanò, Luciano non avrebbe voluto condividere, per questo – spiega al tribunale –  il legale oggi sarebbe in grado di riferire solo quanto Lo Giudice all’epoca decideva di riferirgli. Nel racconto dell’avvocato tornano dunque gli episodi già in passato emersi – e a lungo indagati dalla Procura – come l’aiuto che Cisterna ha senza problemi ammesso di aver fornito a Lo Giudice per ottenere una visita medica specialistica per il figlio, il tentativo andato a vuoto di Luciano di farsi “aiutare” durante un controllo della polizia stradale sulla statale 106, come l’inaugurazione del Caffè Garibaldi, inutilmente posticipata per attendere il magistrato che lì non si presenterà mai. Ma soprattutto, dalle parole di Pellicanò emerge la volontà di quella che oggi viene considerata la mente imprenditoriale del clan Lo Giudice, di contattare Cisterna dopo l’arresto. Una questione a lungo discussa con l’avvocato e ascoltata dagli investigatori e sulla quale oggi Pellicanò afferma deciso e ripete più volte: «A me non ha chiesto di agganciare Cisterna. Tentò di farlo attraverso sua moglie Florinda Giordano e suo fratello Nino», detto il Nano. E ancora: «So che Luciano aveva tentato, tramite la famiglia, di entrare in contatto con il dottore Cisterna, sia per lettera, sia tramite un approccio diretto, ma da quello che ho saputo, per come Luciano stesso mi ha riferito, non c’era alcuna possibilità di intervento».
A Pellicanò – almeno nei piani di Luciano – sarebbe toccato contattare Francesco Mollace, all’epoca in transito dagli uffici del Cedir alla Procura generale, ma ancora in attesa di nomina dal Csm. Una richiesta che più e più volte Lo Giudice avanza durante i colloqui in carcere  e sulla quale il legale, scettico, tenta di temporeggiare. «È difficile spiegare a chi per mestiere non fa colloqui in carcere cosa sia la gestione di un detenuto arrabbiato», inizia a spiegare Pellicanò. «Più volte Luciano mi ha chiesto di parlare con Mollace, quindi l’unico modo per scardinare quest’idea fissa era dirgli quello che non era mai accaduto». In sintesi, per rabbonire Luciano Lo Giudice, l’avvocato avrebbe preso in giro il detenuto, millantando un colloquio andato a vuoto con il magistrato. «Io non ho mai incontrato il dottore Mollace – chiarisce più e più volte Pellicanò – dire a Lo Giudice “non si può fare niente” era l’unico modo per arginare le continue richieste». Una bugia che diventa complicata da gestire e fa preoccupare non poco il legale quando la notizia del presunto – ma stando a quanto ribadisce più volte Pellicanò – mai avvenuto colloquio si diffonde. «La mia preoccupazione era che si montasse un film su una cosa che non c’era. Non pensavo che Luciano sarebbe andato a riferire quello che gli avevo detto a sua moglie e a suo fratello. Io mi ero confidato solo con il codifensore Gatto. Alla fine – dice Pellicanò, rispondendo alle domande del procuratore Cafiero De Raho  che gli contesta alcuni passaggi di un suo colloquio in carcere – stava passando come realmente accaduta una cosa che non era. Per questo ero preoccupato».
Tutte dichiarazioni che starà al Tribunale valutare, come quelle di un altro teste eccellente. In comune con Cisterna e Mollace ha la toga, la frequentazione del cantiere nautico di Sp anò e quella passione per le barche che – dice il pg Francesco Neri – «è stata all’origine dei miei guai». Il magistrato – carte, foto e documenti alla mano, che più di una volta mette fisicamente sotto gli occhi del Presidente – chiarisce passaggio per passaggio, la sua frequentazione del cantiere nautico, così come i suoi rapporti con il proprietario, Nino Spanò, considerato negli anni 80 una vera e propria autorità nella nautica. E su Luciano Lo Giudice è stato netto: «Mi fu presentato da uno dei meccanici del cantiere navale, l’avrò visto quattro o cinque volte. Mi chiedeva come andavano i lavori alla mia barca, niente di più». Ma soprattutto, dice Neri, da pm non avrebbe mai avuto modo di imbattersi né in Luciano né nella cosca Lo Giudice. «Non ho mai avuto occasione di giudicare i Lo Giudice, né ho mai incrociato Luciano Lo Giudice come indagato o come imputato. Ho seguito il processo Valanidi, che partiva dall’omicidio di un parente di Luciano, ma non ho mai avuto a che fare con lui». Ancor più netta sulla caratura criminale del clan, è  la testimonianza del colonnello Valerio Giardina, per oltre 9 anni a capo del Ros di Reggio, quindi trasferito per altri tre a Locri. «Non mi è mai capitato di indagare su Luciano Lo Giudice – afferma Giardina –. Nei miei nove anni di indagini a Reggio Calabria, non ho mai avuto modo di conoscere i Lo Giudice come struttura mafiosa. L’unica famiglia Lo Giudice in cui mi sono imbattuto è quella riconducibile a Mario Audino, attenzionata nell’ambito delle indagini per la cattura di Giovanni Tegano, poi arrestato dal mio reparto». Chiamato a riferire sulla cattura di Pasquale Condello – cui l’ex collaboratore Nino Lo Giudice, prima di sparire ritrattando quanto affermato in precedenza, sosteneva di aver contribuito – Giardina senza mezzi termini ribadisce: «Quell’indagine, su cui ho già abbondantemente riferito nel corso del procedimento Meta, è frutto di diverse attività esclusivamente e squisitamente tecniche: pedinamenti, intercettazioni, osservazioni, censure video». Non ci sarebbero state dunque soffiate né fonti confidenziali, chiarisce il colonnello. Men che meno da parte di quel Nino Lo Giudice, con cui mai – scandisce – ha avuto a che fare. (0050)

Argomenti
Categorie collegate

x

x