«Quella cosca non esiste, no al carcere duro»
REGGIO CALABRIA Non ci sono elementi per affermare «una trascorsa ovvero perdurante attività di una organizzazione criminale collegata al Lo Giudice Luciano», che lui stesso sia «al vertice di una, i…

REGGIO CALABRIA Non ci sono elementi per affermare «una trascorsa ovvero perdurante attività di una organizzazione criminale collegata al Lo Giudice Luciano», che lui stesso sia «al vertice di una, invero inesistente, consorteria mafiosa anche a lui riconducibile», o che sia in grado di «mantenere contatti all’esterno con organizzazioni criminali mafiose».
Sono queste, in estrema sintesi, le motivazioni alla base del sintetico ma durissimo reclamo che gli avvocati Felice Caccamo e Aldo Casalinuovo hanno presentato contro il decreto ministeriale che dispone il trasferimento al regime di 41 bis – il carcere duro – di Luciano Lo Giudice. Un’istanza che il sostituto procuratore Beatrice Ronchi, da tempo trasferita a Bologna ma ancora applicata a Reggio per concludere il processo contro la cosca Lo Giudice, ha avanzato il 17 luglio scorso, trasmettendola alla Dna – che dopo due giorni ha dato l`ok – quindi al ministero.
Ed è dunque da Roma che il primo agosto è arrivato l’ordine di trasferire al carcere di Cuneo, nella sezione riservata ai 41 bis, Luciano Lo Giudice, un soggetto che – si legge nel decreto ministeriale – «secondo quanto rappresentato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale-Dda di Reggio Calabria» sarebbe «di gran lunga, il più capace, scaltro influente componente di vertice» del clan Lo Giudice, «stabilmente inserito nell’associazione di stampo mafioso denominata `ndrangheta con ruolo di vertice ed in grado di tessere rapporti dai fini illeciti con vari esponenti delle istituzioni».
Una definizione che, quando il provvedimento è stato notificato, ha fatto saltare sulla sedia gli avvocati che proprio da quelle accuse – mai provate da una sentenza di condanna – stanno difendendo Luciano Lo Giudice nel processo “Do ut des”. E proprio da tale contestazione partono per smontare pezzo per pezzo il decreto ministeriale. Per gli avvocati, si tratta infatti di «mere ipotesi di accusa, ancora sottoposte al vaglio del giudice dibattimentale di primo grado», ma che al contrario vengono utilizzate per invocare un inasprimento del regime carcerario cui Lo Giudice è sottoposto come «fatti provati e già acclarati in via definitiva».
Inoltre, sottolineano i due legali, allo stato Lo Giudice non è mai stato condannato né per 416 bis né per reati aggravati dall’articolo 7. Arrestato ancora minorenne per associazione mafiosa e condannato in primo grado – ricordano i legali – è stato assolto in Appello e risarcito per l’ingiusta detenzione. Attualmente, su Lo Giudice grava sì una condanna per usura ma – si legge nel reclamo – «non ha alcuna connotazione di “contesto mafioso”. Si è trattato di un processo istruito in sede di Procura ordinaria ed in cui l’unica ipotesi concretamente fissata in precisi termini fattuali era ed è relativa ad un prestito di €. 2.700,00 a fronte di una restituzione di €. 3.000,00, e dunque con un utile contestato di €. 300,00!». Un procedimento privo di qualsiasi «causale o sfondo di tipo associativo» ricordano i difensori di Luciano, per i quali nei quasi quattro anni che il loro assistito ha passato dietro le sbarre «mai si è evidenziata alcuna concreta circostanza in ordine ad una effettiva attualità di collegamenti tra il detenuto ed organizzazioni di tipo mafioso».
Eppure, stando a quanto stabilito dal Ministero sulla base delle indicazioni fornite dalla Procura reggina, Lo Giudice sarebbe «esponente di vertice della cosca» che non ha mai «manifestato alcun proposito collaborativo (…) sempre riconfermando nel tempo la propria adesione all’associazione mafiosa di appartenenza». Un ruolo che lo stesso Luciano, più volte, anche in pubblica udienza, ha più e più volte negato di avere, nonostante i più volte denunciati tentativi di indurlo a collaborare. Circostanze su cui – curiosamente – sembra tornare anche il fratello di Luciano, l’ex collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice nel primo memoriale che sembra aver fatto pervenire a Reggio Calabria dopo la sua scomparsa, non solo confermando quanto denunciato dal fratello, ma aggiungendo anche particolari che non erano stati né resi pubblici, né noti.
Circostanze che non sembrano pesare nella valutazione del Ministero, per il quale Luciano Lo Giudice sarebbe un soggetto estremamente pericoloso cui è «assolutamente necessario impedire di avere rapporti con il mondo esterno al carcere verso cui è in grado di veicolare ordini e messaggi», ma sembrano anzi contribuire a complicare la sua situazione. «Tornato in libertà il fratello Lo Giudice Antonino – afferma infatti il Ministero – è estremamente alto il rischio che si rinsaldi il rapporto criminoso con il detenuto Luciano, attraverso direttive da quest`ultimo inviate o ricevute nel corso dei contatti con l`esterno, con altri detenuti di ndrangheta o con i propri familiari intranei o contigui alla cosca».
Un’ipotesi che a Roma sembrano forgiare al fuoco della misteriosa dinamica della scomparsa del Nano. Resosi irreperibile dal 3 giugno scorso, Nino Lo Giudice si è lasciato alle spalle uno scottante memoriale con il quale ha ritrattato tutte le sue precedenti dichiarazioni. Sei pagine pesantissime in cui l’ex collaboratore accusa quella che definisce una «cricca di magistrati» – l’ex procuratore capo di Reggio, Giuseppe Pignatone, il suo aggiunto che a breve lo seguirà a Roma, Michele Prestipino, e la sostituto, Beatrice Ronchi – di averne drogato la collaborazione, inducendolo ad «accusare innocenti» e rivelare fatti, circostanze e particolari di cui non era a conoscenza. Un documento che diverse autorità giudiziarie stanno approfondendo e verificando, ma sul quale il Ministero – sulla base delle indicazioni inviate dalla Procura reggina – sembra voler dare la propria interpretazione. «Non può non sottolinearsi come il grave fatto della ritrattazione da parte di Lo Giudice Antonino e la scelta di darsi alla latitanza siano sintomatici di un concreto rischio che la cosca Lo Giudice, duramente colpita negli scorsi anni dai sopracitati provvedimenti dell’autorità giudiziaria, si stia ricompattando sotto la guida del suo capo storico».
Ipotesi questa che fa tremare i polsi, nonostante nel decreto non ci sia alcun dato a sostenerla, fatta eccezione per quella che i tecnici considerano una curiosa coincidenza: «Ha sostanzialmente ritrattato anche Lo Giudice Maurizio, collaboratore di giustizia sin dal 1999 e fratello di Lo Giudice Antonino e Luciano, evidentemente seguendo una strategia dettata dai vertici della consorteria, tenuto conto della perfetta coincidenza della tempistica in cui tali revirement sono stati posti in essere». Un’affermazione che per i legali di Luciano Lo Giudice non ha ragione d’essere perché «non corrisponde a verità processuale che il Lo Giudice Maurizio abbia “sostanzialmente ritrattato” (cosa, poi, avrebbe ritrattato?): egli, infatti, si è avvalso della facoltà di non rispondere, esercitando un diritto processuale riconosciuto, così come anche fatto nell’altro giudizio in cui il fratello Luciano era imputato per usura (dunque, con una condotta processuale già posta in essere)».
Ma per Caccamo e Casalinuovo questo non è l’unico punto controverso delle affermazioni che il Ministero, elaborando le note ricevute dalla Procura, mette nero su bianco: «Quando e dove sarebbe stata, poi, “dettata tale strategia dai vertici della consorteria” (a chi si fa riferimento?), come arbitrariamente dedotto nel decreto impugnato, non è dato sapere. Così come non si comprende in cosa “risieda la perfetta tempistica”, posto che il Lo Giudice Maurizio (non più sottoposto a programma di protezione, per quel che si conosce, da molto tempo) fu sentito in dibattimento quando venne disposto il suo esame e comunque ben prima della “fuga” del Lo Giudice Antonino». A motivare dunque l’inasprimento del regime carcerario per Lo Giudice sarebbero stati solo «elementi congetturali che non possono spiegare alcun effetto in relazione agli specifici fini che qui ril
evano».
Ma – quasi paradossalmente – è nelle parole di un uomo di legge di lungo corso che i due legali di Luciano trovano le più forti argomentazioni per chiedere la revoca del decreto che ha spedito al 41 bis il loro assistito. Contro di lui, a puntare il dito è stato soprattutto il fratello Nino Lo Giudice, che nel corso della sua controversa collaborazione aveva indicato Luciano come mente e mandante degli attentati che nel 2010 hanno terrorizzato Reggio Calabria. Affermazioni sulle quali, ancor prima della ritrattazione del Nano, il procuratore generale Salvatore Di Landro – in pubblica udienza a Catanzaro – aveva espresso forti dubbi, manifestando più di una riserva sulla stessa attendibilità del collaboratore. Inoltre, ricordano gli avvocati, «il Procuratore Generale mise in dubbio la stessa esistenza di una cosca Lo Giudice (come operativa nell’attualità), specificando per l’appunto che, a suo giudizio, nessuna causale connessa all’attentato alla Procura Generale ed alla sua abitazione poteva essere ricollegata ai Lo Giudice». Concetti poi ripresi e ribaditi nei mesi successivi – sottolineano i legali – quando Di Landro non ha avuto remore ad affermare: «Era evidente e logico che Lo Giudice dicesse bugie, soltanto menzogne. Perché non ha mai detto a chi si riferisse? Lo Giudice era un burattino: l’ho scritto, l’ho ripetuto anche testimoniando durante l’istruttoria dibattimentale del processo in corso a Catanzaro e a chiunque mi abbia chiesto un parere un’impressione». Parole che oggi i legali di Luciano sperano di riuscire a far pesare. (0020)