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Il colpo di Stato

Il Paese è attraversato da una crisi politica di particolare gravità. Non si tratta, come nella tradizione della storia politica repubblicana, di dissensi tra le componenti della maggioranza di gover…

Pubblicato il: 03/10/2013 – 12:02
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Il colpo di Stato

Il Paese è attraversato da una crisi politica di particolare gravità. Non si tratta, come nella tradizione della storia politica repubblicana, di dissensi tra le componenti della maggioranza di governo. Peraltro, il governo delle larghe intese nasce, per definizione, dalla forzata coesistenza di due partiti divisi da profonde diversità in inevitabile polemica sulle rispettive linee politiche e ideologiche. Questa volta la crisi è determinata dall’annuncio della dimissione in massa dei parlamentari di una delle due componenti (il Popolo delle Libertà) come segno di protesta verso il presunto “colpo di Stato” che sarebbe determinato dalla decadenza del senatore Berlusconi da parlamentare per effetto della condanna definiva da lui riportata per il reato di frode fiscale continuata.
Ciascuno si renderà conto del carattere assolutamente inedito delle motivazioni e dei metodi della protesta (nulla a che fare né con il ritiro della plebe sul colle Aventino nella Roma repubblicana, né con l’astensione, non dimissione, dei parlamentari antifascisti dopo il delitto Matteotti), che hanno indotto, inevitabilmente, il Capo dello Stato a intervenire con durezza, per ribadire la separazione tra i poteri dello Stato e l’assurdità della definizione di colpo di Stato data alla mera osservanza di una sentenza della giustizia penale. Piuttosto che partecipare alla polemica politica, intendo porre l’accento su quella che costituisce la principale accusa mossa dal diretto interessato, dai suoi legali e dalla parte politica che lo sostiene, alla Giunta per le elezioni.
Colgo e segnalo intanto una prima stridente contraddizione. Da una parte si qualifica la Giunta come organo giurisdizionale vero e proprio, tanto da richiedergli di azionare il ricorso alla Corte costituzionale per manifesta incostituzionalità della legge Severino in ragione della sua contestata retroattività; tanto inoltre da poter ricusarne quei componenti che avrebbero anticipato il proprio orientamento di voto, dall’altra invece si richiede che il Capo dello Stato, il governo, il Pd suggeriscano, o meglio impongano) alla Giunta, per motivi prettamente politici (rispetto della agibilità politica del senatore in questione, rischio di caduta del governo, con conseguenti nuove elezioni) un voto contrario alla decadenza in spregio all’indipendenza e autonomia, prerogative tipiche di un organo giurisdizionale. Ciò premesso, il rilievo che sostanzierebbe l’accusa di colpo di Stato, sarebbe il rifiuto di adire la Corte costituzionale e di attenderne il responso circa l’impossibilità di applicazione retroattiva della legge 31 dicembre 2012 n. 235, come suggerito da numerosi giuristi.
Facendo l’ipotesi che la Giunta accetti di ricorrere alla Corte, è possibile una previsione su quale ne sarebbe il responso? Quale migliore risposta se non quella già eventualmente data dalla Corte costituzionale medesima? In effetti la Corte costituzionale una risposta l’ha già data, anche se il dibattito politico, giornalistico e televisivo l’ha ignorata totalmente, fatte rare eccezioni, tra le quali segnalo quella del professor Silvio Gambino sul settimanale cartaceo Corriere della Calabria. La sentenza è la n. 118 del 23 marzo del 1994, (presidente Pescatore, relatore Ferri) che, come ciascuno dei lettori potrà valutare, si occupa di ipotesi perfettamente identica a quella che dovrà decidere la Giunta per le elezioni ed è dunque interessante esaminarne il contenuto. All’epoca, era stata la Corte d’Appello di Torino a sollevare la questione di incostituzionalità dell`articolo 1, primo comma, della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), in forza del quale era stata richiesta la decadenza dell’avv. C.S. dalla carica di consigliere comunale del Comune di… in quanto condannato con sentenza definitiva riportata il 13 dicembre 1989 per il reato di corruzione (articolo 318 c.p.), per violazione degli articoli 25, 51 e 3 della Costituzione (i medesimi articoli della costituzione che si assumono violati anche adesso). Si premette che il condannato era stato eletto consigliere nel 1990 e che la legge che ne prevedeva la decadenza era del 1992. Secondo la Corte d’Appello, la previsione della decadenza, quale che ne fosse la definizione (pena accessoria o sanzione amministrativa), configurava pur sempre una sanzione atta ad incidere negativamente su una situazione giuridica del cittadino e dunque “una punizione”. Come tale, entrerebbe in contrasto con l’articolo 25 della Costituzione in quanto la punizione avverrebbe in forza di una legge entrata in vigore dopo la commissione del fatto; con l’articolo 51 in quanto l’accesso (o la permanenza) alla carica elettiva verrebbe vanificato da una legge introdotta successivamente all’elezione, e all’articolo 3, per violazione dell’eguaglianza delle posizioni personali. Tralasciamo di riferire le argomentazioni con le quali la Presidenza del Consiglio, tramite l’Avvocatura dello Stato, chiedeva il rigetto della sollevata eccezione di incostituzionalità. La Corte riteneva ammissibili le questioni sollevate per poi ritenerle tutte infondate. La Corte, dopo avere ricordato le finalità che il legislatore aveva inteso perseguire con la legge n. 16 del 1992, affermava che quella legge non contemplava altro che «nuove cause di ineleggibilità che il legislatore ha ritenuto di configurare in relazione al fatto di aver subito condanne (o misure di prevenzione) per determinati delitti di particolare gravità» (cfr. cit. sentenza n. 407 del 1992). In altre parole, per quanto riguarda l`ipotesi in esame, la condanna penale irrevocabile è stata presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, cioè, configurata quale “requisito negativo” ai fini della capacità di assumere e di mantenere le cariche medesime. Dalle argomentazioni che precedono deriva l`esclusione delle prospettate violazioni dei parametri costituzionali richiamati dal remittente. «Non è certamente violato – conclude la Corte –, in primo luogo, l`articolo 25, secondo comma, della Costituzione, per il principale motivo che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l`invocato principio si riferisce alle sole sanzioni penali (cfr. sentt. nn. 823 del 1988, 250 del 1992); d`altra parte, come lo stesso remittente riconosce, nella specie si è in presenza della ordinaria operatività immediata di una legge, e non di retroattività in senso tecnico, con effetti, cioè, ex tunc. Parimenti non risultano lesi gli art. 51, primo comma, e 3 della Costituzione, censure che vanno esaminate – così come sono prospettate – congiuntamente. Alla luce della ratio della normativa come sopra individuata, non appare, invero, affatto irragionevole che questa operi con effetto immediato anche in danno di chi sia stato legittimamente eletto prima della sua entrata in vigore: costituisce, infatti, frutto di una scelta discrezionale del legislatore certamente non irrazionale l`aver attribuito all`elemento della condanna irrevocabile per determinati gravi delitti una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo costituzionale della legge in esame, l`incidenza negativa della disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive in corso al momento della sua entrata in vigore».
Questa la decisione della Corte del 1994. Cambia la legge di riferimento, ma non i problemi di retroattività di una legge analoga che prevede la ineleggibilità o la decadenza da mandato elettivo per effetto di una condanna definitiva per reato commesso precedentemente all’entrata in vigore della legge.
La sentenza è concisa nella motivazione come si conviene alle questioni che non richiedono la soluzione di difficili problemi interpretativi, è chiara e risolve questioni identiche a quelle oggi in discussion e. Se la Giunta per le elezioni dovesse attenersi ai principi fissati dalla Corte costituzionale nel 1994, non compirebbe per questo alcun colpo di Stato; si limiterebbe a uniformarsi ad una giurisprudenza ormai consolidata. Sono principi ai quali lo scrivente si era attenuto nei suoi precedenti interventi sul settimanale, dei quali la sentenza della Corte offre autorevolissima conferma. Per questa volta, dunque, il pericolo di un colpo di Stato è scongiurato, come avviene quando ciascuna delle istituzioni si attiene al rispetto delle leggi, delle sentenze, dell’etica pubblica, della Costituzione. I pericoli di colpo di Stato, se ci sono, non vengono dal fronte della legalità e della giustizia. (0050)

* magistrato

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