Il clan Zindato e la crisi “Sconto” sulle estorsioni
«Non c’è stata alcun tipo di collaborazione. Se la gente avesse più fiducia nella magistratura e nelle forze dell’ordine, non ci ritroveremmo ogni giorno a combattere con il crimine odioso delle esto…

«Non c’è stata alcun tipo di collaborazione. Se la gente avesse più fiducia nella magistratura e nelle forze dell’ordine, non ci ritroveremmo ogni giorno a combattere con il crimine odioso delle estorsioni». È lavorando in splendida solitudine, basandosi solo su attività tecniche e senza alcun apporto o collaborazione da parte delle vittime della famiglia Zindato – rivela il questore Guido Longo – che gli uomini della Mobile diretta da Gennaro Semeraro, coordinati dal procuratore capo Federico Cafiero De Raho e dal sostituto Stefano Musolino, hanno stretto il cerchio attorno alle nuove leve del clan.
Nonostante l’arresto dei vertici della famiglia, «come l’araba fenice» – commenta Semeraro- dal novembre 2010 il clan Zindato aveva continuato ad operare e a vessare commercianti ed imprenditori della zona di Modena- Ciccarello e San Giorgio Extra seguendo le direttive che dal carcere il capoclan, Checco Zindato, faceva arrivare ai sodali grazie alla moglie, Malgorzata Tchorzewska.
La donna, finita oggi in manette, non si limitava a trasmettere dal carcere i pizzini che il marito le affidava, ma – sottolinea il commissario capo Francesco Giordano – «aveva anche un ruolo esecutivo». Era lei – hanno svelato le intercettazioni ambientali in carcere – il principale elemento di raccordo fra il capoclan finito dietro le sbarre e quello che era stato scelto dai vertici della famiglia – i fratelli Checco e Gaetano Andrea Zindato – come reggente in loro assenza, Demetrio Sonsogno. Alla donna Checco Zindato – ascoltato dalle cimici degli investigatori – raccomandava di fare riferimento solo a Sonsogno, detto “Mico Tatoo”, «perché è l’unico che sa le mie cose ed è l’unico che mi deve fare tutte le cose». Un ruolo per il quale il reggente già in precedenza era stato preparato, se è vero che – come il capoclan confida alla moglie – «Mico ha un foglio con un promemoria», che per gli investigatori sintetizzerebbe tutti gli affari illeciti in mano al clan.
Ed è lo stesso Zindato a rivelare agli inquirenti l’importanza di quel promemoria, quando spiega alla moglie: «Poi a me mi interessava che avevo un foglio grande, me lo sono mangiato, e non se ne sono accorti, (…) perché avevo un foglio con tutti i nomi, ho detto io mamma (si mette le mani ai capelli)». Un foglio identico a quello in possesso di Sonsogno, che proprio in virtù di questo patrimonio di conoscenze avrebbe dovuto sostituire anche Santo Labate – pure lui finito oggi in manette – in precedenza incaricato della gestione degli affari del fratello Gaetano Andrea, ma dei quali avrebbe avuto una conoscenza solo parziale.
Una direttiva che la Tchorzewska, per ordine del marito, deve comunicare alla cognata, a sua volta incaricata di riferirla al marito, Gaetano Andrea Zindato, all’epoca detenuto a Palmi. «Quando si alzano – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare che sintetizza il colloquio fra i due – Francesco ribadisce alla moglie che deve dire a Elisa di farsi i fatti suoi, la stessa quando va da Andrea gli deve dire che deve vedersi tutto Mico, in quanto quest`ultimo è già a conoscenza di tutto e sa già dove andare, inoltre ha anche una sua lista con tutti i nomi scritti, mentre non devono rivolgersi a Santo, perché dovrebbero dirgli le cose in quanto non le conosce».
È dunque con la regia di Sonsogno che il clan prosegue “l’attività di famiglia”, quelle estorsioni che permettevano ai Zindato non solo di mantenere un saldo controllo del territorio nonostante i vertici fossero dietro le sbarre, ma anche di sostenere le spese che la detenzione di capi e sodali comporta. Estorsioni – ordina Checco Zindato da dietro le sbarre – che non devono però diventare impossibili da pagare per le vittime. «Le persone ti devono volere bene, ma non perché si spaventano», spiega magnanimo il capoclan, sottolineando l’inutilità di «cercare soldi alle persone in giro che non hanno da pagare la bolletta». Una “filosofia” di famiglia – già declinata e in precedenza ascoltata dagli inquirenti da parte dell’altro capo del sodalizio, Francesco Rosmini – che vuole che le estorsioni siano tarate sulla possibilità della vittima: «Se avevano una serranda… se aveva due serrande quattrocento, se un negozio aveva quattro … per dire tre serrande».
Una strategia non di certo dettata dall’etica o dalla bontà d’animo, ma solo dalla necessità di evitare che le vittime sfinite da richieste troppo onerose decidessero di denunciarlo. «Se facevo in questa maniera io … (inc.) … sai quanto duravo? Tre giorni, la gente ti deve volere bene – pontifica Checco Zindato – non ti deve odiare, tu quando gli chiedi cento euro ciascuno loro … (inc.) … i soldi glieli devi prendere a chi li ha, no a quelli che lavorano». Ed è dunque seguendo tale filosofia che alla moglie ordina di fare incetta di articoli sportivi presso un noto negozio sito nel suo feudo, «perché là ho mille euro di buono al mese, hai capito?», ma anche di contattare il titolare di un’impresa edile perché completasse e vendesse la “sua” villetta. Una richiesta inevasa – scopriranno gli investigatori, ascoltando i colloqui in carcere – che Zindato ricalibrerà, ordinando alla moglie di «recuperare almeno cinquantamila euro» dall’imprenditore, obbligato a “regalare” – ricorda il capoclan alla donna – ottomilacinquecento euro al suo reggente Mimmo Tatoo, ma – in nome dell’etica estorsiva – rateizzabile in dieci comode rate, da giustificare con apposita, fasulla fattura. (0080)