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ARABA FENICE | Quei rapporti pericolosi

REGGIO CALABRIA «Con me siamo come fratelli… a parte che hanno amicizie che non ti dico…. ha amicizie… abbiamo un rapporto mio e per tante situazioni…  io con lui non guardo … hai capito che…

Pubblicato il: 06/11/2013 – 19:36
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ARABA FENICE | Quei rapporti pericolosi

REGGIO CALABRIA «Con me siamo come fratelli… a parte che hanno amicizie che non ti dico…. ha amicizie… abbiamo un rapporto mio e per tante situazioni…  io con lui non guardo … hai capito che voglio dire ecco certe cose… dire, se gli fai una cortesia te la ripagano in favori… capito come?… inc/le… hai capito che ti ho voluto fare capire? è gente seria che riconosce!». È con queste parole che il 27 gennaio 2010 l’imprenditore dei clan, Giuseppe Stefano Tito Liuzzo si rivolge ad Antonino Calabrò, per spiegargli chi sia l’avvocato Mario Giglio.
Ha bisogno di un operaio «di quelli seri però», da mandare a casa del legale per alcuni lavoretti, da fare ovviamente a titolo gratuito. Un favore che in futuro sarà ben ricompensato, assicura Liuzzi, che quasi con deferenza presenta a Calabrò il legale. Una deferenza assolutamente non casuale. Il noto professionista reggino infatti non solo si era convertito nella talpa in grado di conoscere – grazie ad «importanti agganci e amicizie» – le eventuali indagini a carico dell’imprenditore e dei suoi referenti mafiosi, nonché consigliori che aveva consentito a Liuzzo di mantenere il controllo sulla Euroedil, che in precedenza gli era stata confiscata. Per Liuzzo, Mario Giglio era il passaporto per i grandi investimenti immobiliari al nord Italia. Investimenti che portano la firma del clan De Stefano.
È lo stesso legale, intercettato e ascoltato dagli inquirenti il 10 novembre 2009 ad accreditarsi con Giuseppe Liuzzo e Osvaldo Massara, cugino dei boss Serraino, come persona storicamente vicino agli arcoti. «Una volta, quand`eravamo ragazzi, siamo partiti – racconta con assoluta nonchalance il legale –.  Vi faccio nomi e cognomi, non mi preoccupo, e siamo partiti: io, Franco (inc), Amedeo Canale ed Enzo Codispoti. Noi eravamo ragazzi, che ci frequentavamo. Dovevamo andare a Rimini per passarci… e Ninetto Romeo, quello grosso, a Rimini per farci una vacanza». Non si tratta di un semplice gruppo di amici. I compagni di viaggio dell’allora aspirante avvocato già all’epoca erano nomi noti della `ndrangheta reggina, inseriti nei ranghi del potentissimo clan De Stefano. Ed è proprio con il massimo vertice degli arcoti che i cinque almeno una sera divideranno tavola e confidenze.
Con orgoglio che non si preoccupa di celare Mario Giglio racconta infatti: «C`era una tavolata di circa venti persone, gente che tre quarti li conosco. A capotavola Paolo De Stefano, di lato il maresciallo dei carabinieri di quella località … (omissis) … Dici: “ma è confidente?” No! Ai vertici hanno rapporti, non è una cosa brutta». Circostanze cristalline e che quasi non meritano commento per il gip Domenico Santoro, che nell’ordinanza sottolinea: «Non è ammessa un`alternativa lettura, posto come sia lo stesso indagato (che si professa indifferente all`eventualità di essere intercettato: vi faccio nomi e cognomi, non mi preoccupo) a confessare il suo rapporto con un boss dello spessore di Paolo De Stefano, narrando di un`occasione conviviale che vedeva costui seduto accanto ad un tutore dell`ordine».
Un legame intenso e strutturato – evidenzia il gip – «tale che lo stesso Giglio avverte la necessità di chiarire ai conversanti come la contestuale presenza di un boss e di un esponente delle forze dell`ordine, competente per territorio in quel luogo, non dovesse apparire strana, atteso come, ad alti livelli, evidentemente per quanto deve essere stato da lui stesso constatato, simili intrecci non fossero casuali».
E neanche all’epoca Mario Giglio doveva essere un soldato di fila se è vero che non solo viene ammesso – giovanissimo – al tavolo di don Paolino, ma conosce nel profondo anche le reali dinamiche – che sotto la superficie dei professati falsi valori di rispetto e “ominità” – governano le ‘ndrine. «Ti sto dicendo, voglio dire … omissis … neanche per il cazzo gli passa … omissis … Al momento opportuno: tu che sei una pedina piccola? A te ti fotto e io … inclle … e ti faccio fottere!, (inc) Provenzano voglio dire lo ha fottuto (inc). È la verità non ti credere che imbroglio … omissis … Quando ha iniziato con le stragi, dice: “Qua è, qua in un (inc) prendetevelo e non rompete i coglioni”. Gente che ha vissuto una vita insieme, gente che è cresciuta insieme … omissis … Si sono fatti ventimila guerre insieme ed è la verità. Provenzano si è (inc), dove ci sono grossi interessi ci sono compromessi».
E forse un po’ per spiegarsi, un po’ per far capire all’interlocutore il proprio peso il legale sottolinea «Dice: “Che dobbiamo fare, dobbiamo ammazzare a Massara”, (inc), un equilibrio di… (inc)? Mi dispiace, dice (inc) … nella politica, nelle professioni….. Vale a dire, nella professione non ti sparo ma ti… Omissis». Nonostante i numerosi tratti incomprensibili e gli omissis voluti dagli inquirenti, anche in questo caso il significato della conversazione è inequivoco. La disinvoltura con cui Giglio tratta argomenti e dinamiche che hanno a che fare con la vita interna non solo delle ‘ndrine, ma anche dei più potenti clan di Cosa Nostra lo collocano in prossimità dei massimi livelli decisionali del clan degli arcoti, lì dove assetti e strategie vengono analizzati, discussi e decisi. Non a caso Santoro, nel commentare il passaggio definisce «monco nel dialogo, ma non per questo meno inquietante, il parallelo che il legale fa con vicende relative a Bernardo Provenzano, capo di Cosa Nostra, l`organizzazione mafiosa siciliana». Inquietante anche perché – almeno fino a qualche tempo fa – l’avvocato Mario Giglio era uno degli più noti professionisti della cosiddetta Reggio bene. Eppure, già in passato, più di un collaboratore aveva parlato di lui collocandolo saldamente nell’orbita degli arcoti.

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI
«Ho conosciuto i Giglio tramite Gregorio Fotia, soggetto legato ai De Stefano-Tegano, il quale mi ha detto di favori ottenuti tramite il predetto e di una amicizia particolare con Peppe ed Orazio De Stefano». È il nipote acquisito di Giovanni Tegano, Roberto Moio, a svelare agli inquirenti la caratura dei fratelli Giglio, finiti al centro di diverse indagini delle Dda di Reggio e Milano. Inchieste come quella sfociata nell’operazione Assenzio- Sistema, che nell’estate del 2011 ha svelato le cointeressenze della famiglia Giglio e del clan de Stefano nel settore della grande distribuzione alimentare, in cui il controllo della cosca De Stefano – Tegano era pressoché totale e garantito dal consapevole e concreto contributo dell’ex consigliere comunale Dominique Suraci.
Ed è proprio in proposito che Moio mette a verbale di fronte ai magistrati: «Conosco i fratelli De Angelis, originari di Sinopoli e legati alla cosca Alvaro, che hanno rapporti con i fratelli Giglio: qualche anno fa i De Angelis hanno avuto interessi commerciali in comune con i Giglio, con Cotugno e con Dominique Suraci». Circostanze confermate anche dall’ex capolocale di Gallico, oggi pentito Paolo Iannò che – sentito più volte dall’allora pm della Dda di Reggio, di recente trasferito alla Procura generale di Roma, Francesco Mollace –  affermerà: «Sono a conoscenza diretta sulla vallì perché c`era Bruno Ventura il figlio del defunto Francesco Ventura (…) partono da quando hanno aperto i discount (…) li c`era Totò Ventura, sbagliavo come chiamavo Bruno il figlio del defunto Francesco Ventura impresario della pulizia (…) che fu ucciso, c`erano Masi De Angelis socio, c`era un tale Cotugno in società e il professor e il dottor Giglio (…) erano in società loro, nella società erano tutti quattro». Non a caso dunque Mario Giglio finirà fra gli indagati quando per il fallimento del sistema Vally scatteranno le manette che porteranno dietro le sbarre anche Dominique Suraci.

L’AFFARE MILANESE IN VISTA DI EXPO
È dunque in virtù  di referenze criminali datate e di tutto rispetto, chiaramente riferibili alla galassia De Stefano, che Mario Giglio propone a Liuzzo u n affare a Milano. «Abbiamo ..(omissis).. un’operazione molto bella.. ancora, ferma e bloccata, molto bella … (omissis) … quell’amico comune, voglio dire Giulio, l’amico mio che è a Milano». L’amico in questione è Giulio Lampada, condannato nell’aprile scorso a 16 anni per associazione mafiosa, considerato una delle principali teste di ponte dei De Stefano in Lombardia. Quando Giglio parla a Liuzzo di lui, l’ombra di indagini e manette è ancora lontana e Giulio Lampada è un affermato imprenditore dal passato nebuloso, ma con un presente di successo, che sta per mettere le mani su un affare succulento. «Ha acquistato un terreno di 10.000 metri quadri, oggi totalmente edificabile – spiega Giglio –  C`è pure una delibera del Consiglio Comunale, dove escono 220 appartamenti. A Milano».
In cambio, il politico «costituiva l’elemento di riferimento dei Lampada con il Comune di Milano, per la risoluzione delle diverse problematiche, di ordine amministrativo che potevano interessare questi ultimi». È la Dda milanese, con l’operazione che porta in carcere Lampada e gran parte della sua famiglia, a spiegare di che affare si trattasse. Un terreno agricolo, in origine di proprietà di una serie di soggetti fra cui Alberto Bonetti Baroggi, capo di gabinetto dell’allora sindaco Letizia Moratti, sito in viale Ripamonti che sarebbe presto – almeno nelle speranze del clan – diventato edificabile. Allo scopo le `ndrine possono contare anche su un opportuno emendamento presentato in consiglio comunale dal consigliere Armando Vagliati, mai indagato ma definito dal gip milanese Giuseppe Gennari uno dei politici a disposizione del clan Lampada. Ancor più grave la sua posizione per l’avvocato Vincenzo Minasi, arrestato insieme agli uomini del clan come legale e uomo di riferimento, che ai magistrati dichiarerà: «Lampada voleva comprare un terreno in via Ripamonti a Milano con Vagliati e io incontrai Vagliati per una consulenze legale. Giulio e Vagliati erano soci». Circostanze oggi – rivelano i vistosi omissis apposti sulle conversazioni che affrontano l’argomento – probabilmente tuttora al vaglio degli inquirenti.
Tuttavia, quando Giglio propone a Liuzzo l’affare, nessuno sospetta delle attività investigative in corso. Al contrario, il legale ha una missione: individuare imprenditori insospettabili che possano sviluppare l’affare senza attirare l’attenzione della magistratura. Non a caso Giglio spiega all’imprenditore: «Vi faccio una domanda, lui lo hanno avvicinato parecchi, non ha problemi di… non ha problemi (….). Cioè, tu pensa che suo fratello è sposato con la figlia di Valle … inc..di Ciccio Valle! (inc)… che ogni tanto gli sequestrano tutti i beni, hanno imprese di costruzione. Ma (Giulio ndr) mi ha detto: “Mario  con tutto che siamo parenti, che è cognato di mio fratello io non voglio avere a che fare con `ndrangheta… con coppole di cazzi”». Una scelta – spiega il legale – né etica, né di principio ma semplicemente dettata da una visione strategica. «Non è che gli manca questo rapporto, perché … (omissis) … conosce cani e porci su Milano», spiega infatti Giglio. Ed è riportando le parole di Giulio Lampada che l’avvocato aggiunge: «Dice: “Mario andiamo a fare un`operazione dove ho lavorato una vita, dieci anni e ho un patrimonio e mi deve finire che me la devono confiscare o sequestrare” … (omissis) … Quindi dice: “Non mi interessa”. Era alla ricerca di un`impresa seria, un`impresa per fare 200 appartamenti».
Un’impresa come quella dei Liuzzo, destinata nella strategia dei clan – si evince dall’ordinanza – a guidare una cordata di imprenditori insospettabili che al clan Lampada, ma soprattutto ai De Stefano loro referenti avrebbe fruttato milioni. Ed è lo stesso Giglio, quasi con fare da piazzista a spiegarne a un poco convinto Liuzzo le potenzialità: «Un`operazione di Milano è la stessa di 12 operazioni a Reggio Calabria … (omissis) … a Milano ..voglio dire … ci sarà l`Expo, ci sarà il boom … (omissis) … allora, avere le capacità in virtù delle amicizie che uno si ritrova, e nella serietà, creare anche una cordata, se ci sono le persone di cui si può creare la cordata».
Un’occasione importante e di cui bisogna approfittare in fretta, perché – spiega l’avvocato – sono tante le imprese calabresi al Nord chiaramente riconducibili a ben noti clan che sgomitano per approfittarne. Ci sono i Pio, famiglia storicamente satellite della cosca Iamonte, o i Malaspina, «il nipote di Santo Malaspina … (omissis) … lo sapete che hanno? non lo sapete … (omissis) … no, no, no, no, lo dovete vedere con gli occhi, dove sta lui Malaspina, ad Arcore, la villa di Berlusconi … inc/le … (omissis) … un solo appalto che ha preso a cologno monzese, che me l`ha detto Cantalupi, l`assessore dei lavori pubblici, 284 milioni di euro, per fare … omissis … Malaspina e quegli altri, i Pio di fossato, dio ci liberi».
Famiglie troppo ingombranti per essere affidabili, così come – stando alle parole di Giglio – non sembrano degne di fiducia le altre imprese e famiglie mafiose radicate al Nord. Sul punto spiega il gip Santoro: «Significativo dell`approccio del Giglio alla questione dell`operazione immobiliare milanese è quanto da lui riferito circa la scarsa affidabilità di soggetti che devono comunque ritenersi contigui alla `ndrangheta, i quali si erano presentati a varie riunioni, evidentemente indette al fine di curare lo sviluppo di questo investimento, con atteggiamento formale da mafiosi (tutti con occhiali neri), ma che non erano stati in grado di contribuire efficacemente (e abbiamo perso tempo) all`impostazione di quanto era necessario ai fini dell`avvio dell`operazione». Un’operazione importante – «sto parlando di un’operazione di 20-25milioni di euro… non è che parliamo di operazioni di caramelle», esclama Giglio – che il legale si prodiga perché vada a buon fine. «Per sua stessa ammissione nelle conversazioni intrattenute con il Liuzzo e con l`Ambrogio, l`avv. Giglio abbia concretamente operato, prestando la propria attività al fine di individuare gli imprenditori giusti che avrebbero dovuto realizzare una cordata onde concretizzare una rilevantissima speculazione immobiliare in quel di Milano. Non avendo conseguito i risultati sperati – sintetizza il gip –  per la sottolineata inaffidabilità dei vari interlocutori che si erano presentati alle riunioni appositamente indette, egli ben pensava di rivolgersi all`amico Liuzzo di cui, evidentemente, conosceva l`affidabilità, non solo imprenditoriale ma, ovviamente, anche mafiosa».
Ed è probabilmente proprio alla luce di queste circostanze che si comprende perché oggi sul capo dell’avvocato Giglio penda una contestazione per associazione mafiosa piena. Il legale, volto e nome noto della Reggio bene appare infatti l’esempio più nitido dei nuovi affiliati di cui oggi le `ndrine si avvalgono per prosperare, formalmente insospettabili, insofferenti nei confronti di regole e rituali, ma assolutamente votati al culto del dio denaro, che servono come ancelle al servizio dei clan.

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