C`è un "Epilogo" per la cosca Serraino
REGGIO CALABRIA Pene pesantissime, una conferma rotonda dell’impianto accusatorio, ma anche un sostanziale accoglimento delle richieste di pena del pm Giuseppe Lombardo. Si chiude così procedimento “…

REGGIO CALABRIA Pene pesantissime, una conferma rotonda dell’impianto accusatorio, ma anche un sostanziale accoglimento delle richieste di pena del pm Giuseppe Lombardo. Si chiude così procedimento “Epilogo”, il processo che ha visto alla sbarra le nuove leve del clan Serraino, in grado di rigenerarsi dopo gli arresti e la morte dei capi storici, ma inchiodato dalle inchieste.
E non ha fatto sconti agli imputati, il Tribunale presieduto da Silvana Grasso, con Foti e Fiorentini a latere. La pena più alta va a Fabio Giardiniere, condannato a 26 anni di reclusione – solo quattro in meno di quanto chiesto dal pm – più 11.500 euro di multa, nonostante sia stato assolto da alcuni dei numerosi reati contestatigli. Di poco inferiore la condanna inflitta a Maurizio Cortese, condannato a passare dietro le sbarre 23 anni e 8 mesi di reclusione a fronte dei 29 chiesti per lui dal pm . Anche per lui, al pari di Giardiniere, è arrivata anche una pesante pena pecuniaria, pari a 7.500 euro. È invece di 18 anni – due in meno rispetto ai 20 chiesti dal pm – la condanna inflitta a Alessandro Serraino, per gli inquirenti l’erede del boss, don Mico, mentre per il vecchio boss Demetrio Serraino, per il quale il pm Lombardo aveva chiesto 20 anni, la pena è di 16 anni di reclusione. Quindici anni dietro le sbarre dovranno passare anche Francesco Tomasello e Antonino Alati. E se per Tomasello, assolto da alcuni capi di imputazione la condanna è nettamente inferiore ai 21 anni chiesti dal pm, la pena inflitta ad Alati supera di un anno anche le richieste avanzate dal sostituto in sede di requisitoria. Infine, sono 13 gli anni di reclusione inflitti a Giovanni Siclari, uno dei ragazzi del “banco nuovo” con cui i Serraino puntavano a ricostruire l’impero del clan della montagna.
Il pm Lombardo ha dunque chiesto e ottenuto quelle condanne senza attenuanti o benefici riconoscibili di sorta che aveva invocato in sede di requisitoria. Condanne necessarie a spezzare la continuità criminale che ha fatto sì che alla sbarra ci fossero i diretti discendenti di quella cosca Serraino, più e più volte condannata in precedenti dibattimenti. «Questo processo ha dimostrato una continuità criminale preoccupante – aveva tuonato in aula Lombardo – e questo significa che noi abbiamo fallito». Secondo l`accusa, la famiglia mafiosa del clan della montagna ha continuato a sfornare nuovi eredi che si sono posti in assoluta linea di continuità con la strada perseguita da nonni, zii, padri. Eredi il cui percorso criminale può essere interrotto solo con condanne adeguate alla pericolosità sociale di aggregazioni che possono essere equiparate a cellule terroristiche, che – aveva setto il sostituto procuratore Lombardo – «pregiudicano lo Stato democratico che anche a Reggio Calabria sembra essere ancora in vigore. Il rischio, altrimenti – avverte il pm – è la normalizzazione sociale della condotta criminale, che diventa strategia e non si spezza se fisiologicamente assorbita dal territorio in cui si radica».
Ed anche oggi in sede di repliche finali il pm aveva messo in guardia dal tentativo «pericoloso e fuorviante» delle difese di «far passare l’idea che siamo di fronte a un gruppo di ragazzi che non ha nulla a che fare con la cosca Serraino», storico clan di quella `ndrangheta «che ha fatto migliaia di vittime nel mondo». Un clan che nel “banco nuovo” ha la sua promessa e la sua scommessa sul futuro. «Salvo fisiologiche eccezioni, ogni appartenente alla `ndrangheta parte dal basso per giungere a livelli apicali e ai livelli invisibili agli occhi dei distratti. Ma per questi ragazzi è meglio aspettare che quel percorso di crescita criminale si completi o per come ci insegna la Costituzione – prima ancora del codice penale e del codice di procedura – dobbiamo agire con tempestività e competenza?», aveva chiesto al Tribuna le e all’aula Lombardo. I componenti del “banco nuovo” – aveva affermato Lombardo – sono ragazzi che si muovono in un contesto di tipo mafioso e come tali devono essere giudicati. «Non siamo di fronte a ragazzi che si muovono in un quadro diverso dalla cosca di appartenenza, ma chiamati a sostituire chi aveva costruito l’organizzazione di tipo mafioso per renderla più forte di prima. Io spero che questo processo possa impedirlo», aveva auspicato Lombardo, ribadendo la richiesta di condanne pesanti per evitare che « nell’animo di persone come Maurizio Cortese possa ingenerarsi il dubbio peggiore – come altri dicevano – che possa attanagliare la società in cui viviamo, cioè che vivere onestamente sia inutile». Auspicio e richieste pienamente soddisfatte. (0030)