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La supercosca reggina e il business immobiliare

REGGIO CALABRIA “Più che Meta si dovrebbe chiamare metà”. In ambienti investigativi e no, più di una volta è stata utilizzata questa battuta per commentare la monumentale operazione –  oggi già tra…

Pubblicato il: 06/12/2013 – 21:07
La supercosca reggina e il business immobiliare

REGGIO CALABRIA “Più che Meta si dovrebbe chiamare metà”. In ambienti investigativi e no, più di una volta è stata utilizzata questa battuta per commentare la monumentale operazione –  oggi già tracimata in un processo che in abbreviato ha superato indenne due gradi di giudizio e in ordinario si avvia verso la conclusione del primo grado – che per prima ha svelato gli assetti scaturiti dalla seconda guerra di ndrangheta e le nuove gerarchie criminali a Reggio città.
Un’indagine che ha svelato il volto nuovo di un’organizzazione che, utilizzando le parole del gip,  “si evolve, attualizzandosi, sulla base di principi condivisi; un`organizzazione che ha una testa autorevole che coordina le azioni criminali, che non prevede distinguo, che trova larga legittimazione nella consapevolezza generalizzata del peso criminale dei suoi vertici che non sono più, soltanto, i riconosciuti capi delle rispettive articolazioni territoriali ma sono l`espressione, frutto di precisi accordi, di un`organizzazione di tipo mafioso che ha abbandonato logiche spartitorie antistoriche per divenire sempre più influente, funzionale e riconoscibile”. Un’inchiesta rivoluzionaria, ma che già all’epoca lasciava intravedere nuovi spunti investigativi e filoni di indagine, destinati in futuro a completare – pezzo dopo pezzo – il quadro disegnato dal procedimento madre.

UN ALTRO PEZZO DEL QUADRO
Nuovi elementi come quelli introdotti oggi  con l’audizione del colonnello della guardia di finanza, Gerardo Mastrodomenico – per anni a capo del Gico a Reggio, oggi trasferito a Roma – chiamato dal pm Giuseppe Lombardo a riferire sull’indagine Araba Fenice, l’operazione eseguita il sei novembre scorso che ha portato dietro le sbarre 47 i professionisti accusati, a vario di titolo, di associazione per delinquere di stampo mafioso, intestazione fittizia di beni, abusivo esercizio dell’attività finanziaria, peculato, corruzione, illecita concorrenza ed estorsione, tutti reati aggravati dalle modalità mafiose e all’iscrizione sul registro degli indagati di  altre 17 persone. Per gli inquirenti sono tutti responsabili di aver costituito una holding criminale attiva nel settore dell’edilizia privata su diretto mandato e previo accordo dei clan di tutta la città. Dai Fontana-Saraceno, egemoni nella parte nord della città, ai Ficara-Latella, predominanti nella parte sud, passando dai Condello del quartiere di Archi ai Serraino-Rosmini-Nicolò, ai Lo Giudice di zona sud, fino agli Audino, famiglia che sa sempre orbita nella galassia De Stefano-Tegano ma ha la propria storica roccaforte nel quartiere di San Giovannello, tutti i clan erano parte di quella ben organizzata e strutturata «cabina di regia», che tramite imprese e professionisti compiacenti si sarebbe per anni accaparrata i più importanti lavori edili della città di Reggio Calabria. A fare da perno all’intera struttura sarebbe stato l’imprenditore edile Giuseppe Liuzzo, o meglio il suo consigliori, l’avvocato Mario Giglio, considerato espressione diretta della famiglia De Stefano.

LA FOTOGRAFIA DINAMICA DELLA SUPERASSOCIAZIONE
Una holding che oggi  rappresenta la prova concreta, tangibile di quell’ipotesi investigativa che ha ispirato il procedimento Meta  che nelle aule di giustizia sta scrivendo la storia di quegli assetti e quelle strutture nati dalla pax mafiosa del `91, quando la nascita della superassociazione ha sancito la fine della guerra fra clan che in meno di cinque anni è costata alla città oltre seicento omicidi e inaugurato un nuovo regime di concordia basato su regole ferree e assetti definiti. Una struttura spiegata in dettaglio da vecchi e nuovi collaboratori di giustizia che con le proprie rivelazioni hanno contribuito alle indagini, ma dinamicamente fotografata oggi da quella speculazione immobiliare costruita e scientificamente divisa fra tutte le `ndrine reggine ricostruita dall’operazione di Araba Fenice.
Ufficialmente progettata dalla famiglia Calabrò, nel quartiere di Ravagnese, storica roccaforte dei Ficara Latella, su un terreno di proprietà di Rocco Musolino, nome di peso della `ndrangheta aspromontana con pesanti interessi in città, in realtà – ha svelato l’inchiesta – quell’operazione, come la ditta Edilsud dei Calabrò, aveva un solo reale dominus, l’imprenditore Giuseppe Liuzzo. Era lui – è emerso in aula – a essere interpellato in caso di qualsiasi decisione imprenditoriale, così come per la definizione delle compravendite degli immobili realizzati, senza mai apparire formalmente e in alcun modo nella compagine societaria. E non a caso – ha ricordato Mastrodomenico, che ha firmato la prima informativa alla base di quell’indagine –  è toccata proprio a Liuzzo, al termine di un vero e proprio summit mafioso, la scelta delle imprese che avrebbero lavorato presso il cantiere della società, per il completamento delle strutture murarie innalzate, la realizzazione degli impianti elettrici e idraulici, la posa dei pavimenti e delle piastrelle, la pitturazione interna ed esterna, gli infissi e svariati altri lavori necessari al completamento dello stabilimento residenziale. Lavori e forniture sarebbe stati dunque affidati a “determinati” soggetti economici, risultati essere tutti legati alle varie cosche reggine operanti in città sulla base di un disegno preciso e previamente concordato fra i vertici dei clan, teso alla spartizione, a tavolino di tutti i lavori di edilizia, affinché ogni famiglia di ‘ndrangheta beneficiasse della «propria parte di competenza», consistente in sostanziose «entrate economiche». Un giro d’affari milionario, formalmente giustificato grazie a un vorticoso giro di fatture per operazioni inesistenti, grazie a cui commercialisti compiacenti potevano “sistemare” la contabilità delle aziende espressione della holding criminale.

IL RUOLO DI GIGLIO
Ma dietro Liuzzo, a fare da reale regista alla monumentale operazione, stando alle risultanze investigative dell’inchiesta riportate oggi in udienza, sarebbe stato il noto avvocato Mario Giglio, ufficialmente nome e volto noto della Reggio bene, in realtà da sempre vicino ai clan. È lui stesso – intercettato dagli inquirenti – a ricordare i rapporti di lunga data che lo legano a uomini di peso della famiglia De Stefano, incluso il noto boss Paolo de Stefano – vero artefice della posizione di supremazia del clan – con cui una volta, a Rimini, sarebbe anche stato a cena. Rapporti solidi in virtù dei quali sarà proprio Mario Giglio – sintetizza il colonnello – non solo a gestire l’affare a Reggio, manovrando Liuzzo come un burattino, ma anche ad assumere l’onere di individuare finanziatori e costruttori in Calabria, come in Piemonte e Lombardia per sviluppare quella speculazione che a Milano Giulio Lampada – condannato nell’aprile scorso a 16 anni per associazione mafiosa, considerato una delle principali teste di ponte dei De Stefano in Lombardia, ma all’epoca ancora solo imprenditore chiacchierato – stava progettando su un terreno di via Ripamonti, una delle zone all’epoca interessate dalle “riqualificazioni” targate Expo. Ed è proprio alla luce di queste risultanze investigative che diventa tutto da chiarire il ruolo di Giglio nel fallimento dei supermercati Vally, un altro grande affare finito al centro del procedimento Assenzio – Sistema.

LA DEPOSIZIONE DI TROTTA
Allo stesso modo, è toccato al dirigente del Gabinetto regionale di Polizia scientifica della Polizia di Stato, Diego Trotta il compito di far confluire in Meta le risultanze dell’indagine Xenopolis, che ha disegnato in dettaglio evoluzione, interessi e affari della cosca Alvaro e del suo massimo esponente Cosimo. Figlio di quel don Mico di Sinopoli che nella seconda guerra di `ndrangheta ha avuto un fondamentale ruolo di paciere, Cosimo Alvaro non a caso sceglierà di passare a Reggio il suo periodo da sorvegliato speciale. È qui infatti che il clan – come svelato dall’inchiesta Meta e confermato da in
dagini successive – metterà le mani su diverse attività imprenditoriali dalla ristorazione alla sanità, alla diversione. Tutte attività su cui, nonostante il tentativo di dissimulare la propria ingombrante presenza, lascerà la propria indistinguibile firma.

IL MOSAICO
Dettagli, minuti pezzi di un mosaico che trovano posto nel quadro grande disegnato dal procedimento Meta, in cui la ndrangheta ancestrale, delle faide e delle guerre, delle cariche e delle riunioni a Polsi, è una sovrastruttura necessaria, ma che non esaurisce l’ormai stratificato universo criminale. Uno spazio tutto da definire, dove oggi a giocare le partite decisive in nome e per conto delle ndrine, sono spesso professionisti  formalmente insospettabili, insofferenti nei confronti di regole e rituali, ma assolutamente votati al culto del dio denaro, che servono come ancelle al servizio dei clan. (0020)

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