«La soluzione si trascina»; «il problema, una volta posto, deve essere risolto»; «urge, non si può tardare oltre ad affrontare la questione». Chi legga queste, e somiglianti, sentenze pensa: perché il governo, perché il Parlamento; perché il ministro competente (aggiungiamo noi: perché i presidenti delle Regioni e Province nonché i sindaci) tardano tanto? Codesti frettolosi non riflettono; è questo davvero non uno dei tanti, ma il problema; e come accade che di volta in volta, ogni giorno, tanti siano i problemi urgenti, dei quali la soluzione non può farsi attendere senza danno, anzi senza grave danno? Perché è così lungo l’elenco dei problemi urgenti; e così corto quello degli scritti nei quali sia chiaramente chiarito il contenuto di essi? Come si può deliberare senza conoscere?
È quanto scritto da Luigi Einaudi – economista di fama mondiale, politico “francamente liberale” (come amava definirsi) e acuto giornalista di settore, che divenne nel 1948 il secondo presidente della Repubblica italiana – in una delle originarie sei dispense (1956) che poi composero nel 1959 il volume Prediche inutili.
Un libro che mi regalò il grande sanfilese professor Mario Nigro, uno dei padri del diritto amministrativo, allorquando facevo pratica di avvocato (1975), a margine di un’importante causa, che lo vedeva difensore insieme al mio maestro Mauro Leporace, per ringraziarmi di averlo precedentemente aiutato nel trovare un libro di arringhe di Genunzio Bentini, del 1931, presso un rigattiere lametino.
Un’opera, quella di Einaudi, che mi colpì tanto da indurmi a cercare, molto poi, nel mercato dell’antiquariato librario le anzidette sei dispense, che ho il piacere di conservare con cura.
Sei dispense e/o un libro che dovrebbero essere letti da chiunque abbia a che fare con la pubblica amministrazione, specie da quelli che siedono dalla parte che “conta”. Un “onere” invece disatteso irresponsabilmente, per due ordini di motivi. Prioritariamente, perché vittime del ritenere troppo spesso un perditempo leggere i libri, soprattutto quelli che trattano di argomenti seri. Secondo, per avere assunto l’abitudine “intelligente” di vivere dei riassunti degli altri, spesso sintetizzati au contraire.
Dunque, una classe politica sempre più inetta che vive di suggeritori, e soprattutto senza quella cultura che, allo stato puro, è requisito indispensabile per comprendere e risolvere i fenomeni che circondano la vita umana e delle istituzioni che la governano. Da qui, un uso arbitrario del deliberare, senza conoscere, prescindendo da ciò che serve per rendere esigibili i diritti di cittadinanza alla collettività.
Tutto questo determina un’amministrazione pubblica fondata su criteri che nulla hanno a che fare con il principio di legalità, invasa com’è dalle spinte che favoriscono l’illecito. Ciò sino ad arrivare alla comune pratica da parte dei preposti, ad ogni livello territoriale, di acquistare in senso proprio il consenso, elargendo di tutto. Un esercizio così diffuso da scandalizzare (stranamente) pochi, nonostante apertamente fondato su ricatti, sulla indebita concessione del non dovuto e sulla dispersione del denaro pubblico, spesso destinato ad un uso stravagante (vedi le recenti indagini della guardia di finanza nei diversi consigli regionali che stanno suscitando l’ilarità internazionale con le ricariche pagate agli amici, i biglietti per locali hard e per i bagni pubblici, i pranzi di nozze delle figlie, eccetera).
Dunque, un’ignoranza diffusa e un altrettanto diffuso malcostume che ha condotto il Paese nel disastro e ridotto, per esempio, la nostra Regione a brandelli. Anche nei Comuni, vi è la brutta abitudine di deliberare senza conoscere. Fiumi di denaro disperso, anche durante i commissariamenti di diversa specie, dei quali la Calabria (modestamente) è campione di incasso, per conoscerli tutti vicendevolmente. Questi ultimi hanno infatti rendicontato spese folli senza fare un granché ovvero per rendersi colpevoli di occasioni mancate. Stessa cosa accadrà con le “sostituzioni” disposte a seguito del dilagante dissesto.
Conoscere per deliberare dovrebbe essere il motto applicato da chiunque, tanto da divenire la ragione della pratica quotidiana per chicchessia, anche dei nominati ministeriali a diverso titolo per curare l’altrimenti incurabile. Sono, invero, frequenti pratiche non affatto caratterizzate dalle necessarie conoscenze, quelle indispensabili per ben deliberare sia nell’ordinarietà che nella straordinarietà, intendendo per tale anche l’ipotesi di consigli comunali sciolti per infiltrazione o condizionamento mafioso.
Quanto all’ordinario manca persino la lealtà dei sindaci con l’elettorato, spesso troppo succube delle promesse e del “negozio elettorale” fondato su do ut des, persino nel sottacere le verità sullo stato di salute dei conti. Il tutto all’insegna del «chi me lo fa fare!».
Su tutto le soluzioni. La prima, lavorare nel senso di rendere i Municipi il più trasparente possibile. Un dovere che, con l’ingresso in Costituzione dell’equilibrio del bilancio della Repubblica, rappresenta anche l’anticamera delle soluzioni ai dissesti latenti. La seconda, prevedere l’istituzione a regime di una “scuola per sindaci” da frequentare per imparare le regole ineludibili. Una frequenza da rendere “obbligatoria” anche per accedere alla carriera politica del più grande “mestiere del mondo”: quello di amministrare la res pubblica locale per garantire i diritti di cittadinanza alle collettività.
Un modo per escludere quelli che vi ricorrono, per dirla alla Razzi/Crozza, per «farsi i c…. loro». (0050)
*docente Unical
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