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Omicidio Cordì, chiesti 4 ergastoli

REGGIO CALABRIA «È vero che Salvatore Cordì era un mafioso. È vero che era un killer. Ma non è accettabile che queste questioni vengano risolte con un accordo fra i clan. A chi ha pensato di poterla…

Pubblicato il: 03/03/2014 – 22:09
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Omicidio Cordì, chiesti 4 ergastoli

REGGIO CALABRIA «È vero che Salvatore Cordì era un mafioso. È vero che era un killer. Ma non è accettabile che queste questioni vengano risolte con un accordo fra i clan. A chi ha pensato di poterla chiudere con un accordo, vorrei dire che mi dispiace per loro, ma ci siamo anche noi». È con queste parole che il pm Antonio De Bernardo, applicato al procedimento d’Appello, ha concluso la sua lunga requisitoria al processo per l’omicidio del “cinese”, Salvatore Cordì, freddato il 31 maggio del 2005 a Siderno. Un delitto che, per la pubblica accusa, Michele Curciarello, ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio, Antonio Martino, Antonio Panetta e Domenico Zucco devono pagare con l’ergastolo.  
Una richiesta pesantissima, quella del pm De Bernardo e dal pg Cianfarini –  che ha sostituito Francesco Mollace dopo il trasferimento a Roma – che se per Curciarello non è che una conferma della condanna incassata in altri gradi di giudizio, per Martino, Panetta e Zucco costituirebbe un ribaltamento delle assoluzioni, rimediate in primo grado. Un procedimento complesso, sfilacciato in mille rivoli e su cui grava – stando alle ipotesi investigative sviluppate all’epoca – anche l’ombra dell’inquietante lettera minatoria ricevuta dal pm De Bernardo e dal pg Mollace il 20 marzo scorso. 
Ma soprattutto un processo che anche in questa nuova fase non ha smesso di arricchirsi di nuovi elementi, necessari per completare il quadro. Per decisione della Corte d’appello – presieduta da Iside Russo con Marialuisa Crucitti a latere –  l’istruttoria dibattimentale è stata infatti riaperta per permettere la testimonianza – fra gli altri – dei collaboratori di giustizia Antonio Cossidente, ex boss dei basilischi, la cosiddetta “Quinta mafia”, collegata con la ’ndrangheta calabrese, che opera nel territorio lucano, Michele Oppedisano, meglio noto come “Mimmo”, il gioielliere di 58 anni, fratellastro del boss Salvatore Cordì e Giuseppe Costa, fratello del boss Tommaso, che sconta in carcere gli ergastoli per gli omicidi di Pasquale Simari e Gianluca Congiusta. 
Collaboratori importanti che con le loro rivelazioni hanno permesso oggi al pm De Bernardo di ricostruire in maniera inedita quel periodo di relativa tregua nella lunga faida fra i Cordì e i Costa che in realtà – ha spiegato il sostituto – non era che una finta pace costruita solo a uso e consumo degli inquirenti. Ai pm, Oppedisano ha infatti dichiarato di aver deciso di collaborare con la giustizia nel momento in cui la sua famiglia gli avrebbe chiesto di testimoniare il falso in favore dei presunti assassini del fratello Salvatore. Una testimonianza necessaria per negare una faida che le `ndrine preferiscono gestire fra loro e senza che la magistratura possa utilizzare i fatti di sangue per costringere per lungo tempo dietro le sbarre capi e gregari. Affermazioni in linea con quelle di Cossidente, che ha sempre affermato di aver saputo da Guido Brusaferri, considerato l’assessore ai Lavori pubblici della cosca Cordì  che “sarebbe stata una pace finta, dal momento che c’erano stati troppi morti. Lui mi diceva che comunque non bisognava far capire alle forze dell’ordine che c’era stata la faida, per non dare conferme nei processi e nelle indagini”.
È stata questa la paura che– ha ricordato il pm – ha portato i clan e a progettare contromisure fin dal 2008, quando in carcere gli inquirenti registravano una conversazione fra il boss detenuto e Francesco e Nicola Cataldo, all`epoca in visita, nel corso della quale si sente distintamente Antonio Cataldo affermare: «Questo fatto qua, gli ha chiesto il rito immediato è un rito immediato è un rito pericoloso perché non gli dà spazio alla difesa, lui adesso porta carte nuove, dice che da tre anni che sta facendo indagini».  
Per i pm che, come De Bernardo, all`epoca hanno avuto il compito di analizzare conversazioni di questo calibro, il significato è stato immediatamente chiaro: Antonio Cataldo temeva un allargamento dell`inchiesta – cosa poi effettivamente avvenuta – e cercava di esortare i suoi parenti affinché «si adottino adeguate contromisure, che possono consistere in iniziative processuali, ma che, – si legge nelle carte – potranno e dovranno essere anche di altra natura e quindi volte ad inquinare il quadro probatorio o a garantirsi l’irreperibilità».  
Condannato in primo e secondo grado come mandante dell’omicidio, Cataldo si è  salvato da una condanna dopo il rinvio disposto Cassazione, grazie a una – quasi inspiegabile sentenza di assoluzione – ma quei tentativi di inquinare lo scenario in cui i clan si muovevano, sono rimasti agli atti del procedimento che oggi vede alla sbarra i suoi sodali. Elementi che oggi potrebbero essere determinanti per condannarli e si aggiungono alle innumerevoli perizie tecniche, alle intercettazioni e alle prove collezionate dai magistrati nei lunghi anni di istruttoria. 
Tutti dati che oggi il pm De Bernardo ha ricordato in sede di requisitoria, ricostruendo anche con l’aiuto di slides e grafici il contesto è maturato l’omicidio, ma anche i singoli elementi che inchiodano gli imputati. È il caso dell’agghiacciante telefonata – intercettata dagli investigatori – fra don Mico Zucco e Antonio Panetta, che il pm ha chiesto e ottenuto che venisse ascoltata in aula. Qualche squillo a vuoto, poi – nitido – il rumore di uno sparo. Un malriuscito tentativo di costruirsi un alibi – secondo il pm – ma anche di dare istruzioni ai sodali, comunicando loro che l’azione di fuoco era stata portata a termine. 
Una ricostruzione che adesso toccherà al folto collegio difensivo tentare di smontare, prima che la Corte si chiuda in camera di consiglio per emettere una sentenza definitiva su quello che viene considerato il più importante omicidio della lunga, sanguinosa faida fra i Cordì e i Cataldo. (0030)

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