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OPERAZIONE TNT | Anziani e bambini le vittime preferite

REGGIO CALABRIA Non lo facevano né per fame né per bisogno, «se anche fossero tutti ricchi – dice il procuratore capo Federico Cafiero de Raho – non avrebbero smesso di commettere reati». E non aveva…

Pubblicato il: 09/04/2014 – 16:21
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OPERAZIONE TNT | Anziani e bambini le vittime preferite

REGGIO CALABRIA Non lo facevano né per fame né per bisogno, «se anche fossero tutti ricchi – dice il procuratore capo Federico Cafiero de Raho – non avrebbero smesso di commettere reati». E non avevano pietà né per anziani né per bambini che, al contrario, erano proprio i loro principali obiettivi. Facevano tutti parte di quella che il capo della Dda reggina non esita a definire «un’organizzazione violenta dedita a reati efferati», i dieci soggetti arrestati oggi, per ordine del gip di Reggio Calabria, dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria e dal nucleo per la Tutela patrimonio culturale di Cosenza e “Cacciatori”. È una vera e propria banda criminale dedita a rapine, sempre portate a termine con ferocia e violenza, quella svelata dalle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza, sviluppate a partire dal sequestro di un discreto quantitativo di tritolo, dello stesso tipo di quello rinvenuto nelle stive della nave “Laura C” divenuta – hanno spiegato precedenti indagini – fonte di approvvigionamento per i clan, rinvenuto nell’aprile 2012 a casa di Domenico Demetrio Battaglia. Se sull’utilizzo progettato per quell’esplosivo indagini e approfondimenti sono ancora in corso, è stata invece svelata, identificata e fermata, grazie ad intercettazioni e approfondimenti investigativi, la galassia di soggetti che attorno a Battaglia gravitava.
Uomini violenti, spietati, strutturati «in maniera quasi paramilitare perché ognuno aveva il proprio compito e il proprio ruolo» – commenta Sferlazza – ma con un unico obiettivo: arricchirsi alle spalle di vittime inermi, a volte anche conosciute. È quanto successo a due anziane donne di Cardeto, indicate alla banda da Teodoro Moro, che in quel caso si limiterà a fare da “basista” del colpo perché temeva di essere riconosciuto dalle due donne. Allo stesso modo, erano persone conosciute, una donna e i suoi familiari a cui la banda ha svaligiato casa, nelle stesse ore in cui li sapevano impegnati in ospedale ad assistere il parente di uno dei rapinatori.
Sono reati pesanti, che vanno dall’associazione a delinquere semplice alla rapina, passando per lesioni e violenza privata, quelli di cui devono rispondere Domenico Demetrio Battaglia, Damiano Roberto Berlingeri, Giovanni Cilione, Ivano Alessio Cirillo, Vincenzo Fortugno, Teodoro Moro, Massimo Murina, Massimo Piccolo, Osvaldo Surace e Giuseppe Zampaglione. «Nonostante alcuni di loro siano contigui alle cosche, in particolare ai Serraino e ai Franco, sia per relazioni parentali, sia perché è la stessa conformazione della criminalità a Reggio Calabria che non rende ipotizzabile un’attività criminale così pervasiva senza il consenso dei clan, non si tratta di affiliati alla `ndrangheta», specifica il procuratore capo, a riprova di una Procura impegnata anche sul fronte della criminalità comune. «Reati particolarmente gravi e condotte efferate come quelle di cui si sono resi protagonisti gli odierni arrestati – spiega Sferlazza – generano nella popolazione un senso di insicurezza nella cittadinanza, che indebolisce l’immagine dello Stato e questo non possiamo permettercelo». E di paura ne hanno avuto tanta le malcapitate vittime della banda, che «in quasi tutte le rapine, aveva a disposizione armi proprie e improprie», sottolinea il maggiore Miulli, che non ha esitato ad usare. È quanto successo ad esempio ad una coppia, costretta a dare ai rapinatori tutto quello che di valore fosse presente in casa, mentre uno dei componenti della banda minacciava di ucciderne il figlio, puntandogli un coltello alla gola. O ancora, nel caso della rapina commessa nei confronti di un’anziana donna, che solo per aver tentato di negarsi alle pretese dei malviventi è stata picchiata con ferocia tale da procurarle lesioni che le sono costate un mese di ospedale. Coltelli, pistole, spranghe, bastoni, a volte anche fucili a canne mozze, la banda aveva a disposizione di tutto e usava di tutto. Fino alle estreme conseguenze. A confessarlo, intercettato dalle cimici dei carabinieri, è Giuseppe Zampaglione, che con fare esperto teorizzava: «Se uno prende a fare… almeno lo tira, si deve difendere poi una persona per davvero, se deve andare male che vada male, vaffanculo… oh, un’arma è sempre un’arma». Propria o impropria che fosse l’arma utilizzata, per il gruppo l’importante era – come lo stesso Zampaglione spiega con dovizia di dettagli – picchiare tanto, forte e subito le vittime, in modo da creare immediata sudditanza psicologica. Cardeto, Pellaro, Bocale, Campicello di Pellaro e Rosario Valanidi, in poco tempo, stando a quanto fin qui emerso, la banda aveva messo a segno almeno una ventina di colpi, seminando, con il beneplacito dei clan, regolarmente messi al corrente delle azioni del gruppo, paura e ferocia in tutta la periferia sud. Un segnale che bisogna interpretare con attenzione per il procuratore Federico Cafiero de Raho, che nelle scorribande del gruppo non legge un segnale di indebolimento della `ndrangheta, ma al contrario la persistenza di un feroce esercito di manovali di riserva, che comunque ha nelle `ndrine il proprio punto di riferimento e a loro chiede autorizzazione. «È normale che via via che la mafia si indebolisce, lasci emergere la propria natura violenta, ma non è questo il caso. In generale, possiamo dire che c’è un indebolimento superficiale, ma non tale da determinare un nostro gaudio. Il problema che oggi ci ritroviamo ad affrontare è quello che altre città come Palermo o Napoli hanno gestito vent’anni fa, ma qui siamo indietro. La strada è in salita, lastricata di insidie, di bombe, cioè tutto quello che ci impedisce di procedere rapidamente, ma la libertà – conclude il procuratore capo della Dda – è il primo diritto a cui dobbiamo aspirare». (0050)

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