REGGIO CALABRIA Operazioni, arresti, processi e condanne anche a lunghe pene detentive per capi e sodali non hanno ancora arginato il predominio del clan Caridi-Borghetto-Zindato sui quartieri di Ciccarello, Modena e San Giorgio extra a Reggio Calabria. Al contrario, la necessità di mantenere la folta schiera di affiliati finiti negli anni dietro le sbarre ha reso ancor più feroce il clan nel controllo di un territorio, in cui anche la microcriminalità doveva versare la propria gabella.
È quanto emerge dall’operazione Cripto, scaturita dall’indagine eseguita dagli uomini del comando provinciale dei Carabinieri, con cui la Dda ha inferto un nuovo duro colpo al clan che storicamente domina quei quartieri che dalla periferia sud di Reggio si arrampicano verso la montagna. «Con questa operazione – commenta il comandante provinciale Lorenzo Falferi – siamo riusciti finalmente a chiarire il meccanismo attraverso cui viene assicurato il mantenimento ai sodali e ai loro familiari quando sono detenuti».
Ed è un vero e proprio sistema mutualistico, assicurato e gestito da chi come Melina Nava – madre dei fratelli Checco e Andrea Zindato, considerati tuttora figure apicali del clan nonostante le lunghe condanne anche di recente rimediate – ha il nome e il peso per tenere in mano le redini di un rissoso clan, quello messo in luce dalle indagini che la Dda ha fatto partire all’indomani dell’omicidio di Marco Puntorieri, soggetto vicino al clan, freddato in un agguato da Domenico Ventura, Natale Cuzzola e Domenico Condemi, di recente tutti condannati all’ergastolo. Se su quell’omicidio nulla di nuovo emerge rispetto a quanto già accertato, le attività tecniche disposte dalla procura hanno permesso di entrare nelle case e nelle celle degli uomini del clan già detenuti ed è stata la loro viva voce a rivelare «come il vincolo di solidarietà proprio della ‘ndrangheta – spiega il procuratore capo della Dda Federico Cafiero de Raho – implichi che la raccolta di denaro debba poi essere redistribuita fra le famiglie dei detenuti».
È soprattutto dalle conversazioni di Domenico Antonio Laurendi – responsabile per il clan della gestione dei pagamenti mensili ai familiari degli affiliati prima di entrare in carcere, ma che grazie ai familiari ha mantenuto anche da dietro le sbarre questo ruolo – che investigatori ed inquirenti sono riusciti a ricostruire gli equilibri esistenti e ad individuare i «veri e propri accordi – si legge nell’ordinanza – con cui stabilire chi è l’incaricato di consegnare il denaro e chi, invece è deputato a riceverlo, rivelando come le somme di denaro utilizzate per il sostentamento dei detenuti vengano procurate attraverso la consumazione di altri delitti quali il traffico di stupefacenti o reati contro il patrimonio».
Un sistema rodato che anche quando si inceppa è in grado di attivare procedure e interventi necessari per rimetterlo in marcia. È quanto succede ad esempio quando uno dei sodali, Biagio Parisi, decide di trattenere la quota destinata ai familiari di un uomo del clan, Domenico Ventura. Uno sgarro per cui Domenico Laurendi, tramite i familiari, chiederà l’intervento diretto di Melina Nava, madre del reggente Checco Zindato e del fratello Andrea, cui dopo l’arresto dei figli è toccato tenere strette le redini del clan. È lei infatti a venire informata di dissidi e controversie, puntualmente riferite al figlio Checco, come a riportare le direttive che da questi vengono impartite durante i colloqui.
Un meccanismo emerso da centinaia di conversazioni intercettate e che spingono gli inquirenti a ipotizzare che proprio dai massimi vertici del clan sia arrivato il via libera all’escalation di intimidazioni – una testa d’agnello in macchina, l’auto data alle fiamme, minacce verbali e fisiche – cui Parisi è stato sottoposto per riportarlo «sulla retta via». «Possiamo immaginare il clan come una struttura a cerchi concentrici, con un nucleo forte in cui valori e principi sono radicati, da cui poi si diramano cerchi concentrici sempre più lontani in cui il rispetto di regole e principi viene imposto con la forza dell’intimidazione», spiega il comandante della compagnia di Reggio Calabria, Pantaleone Grimaldi, che ha fattivamente coordinato l’indagine.
«La violazione delle regole in ambito ‘ndranghetistico implica sanzioni anche letali», aggiunge de Raho, per sottolineare il regime di aggressioni, intimidazioni e violenza con cui il clan Caridi-Borghetto-Zindato gestisce il proprio feudo e che la popolazione supinamente accetta. Nonostante gli innumerevoli episodi di violenza, con tanto di sparatorie in pubblica piazza e pestaggi, nessuna segnalazione da quella zona è mai arrivata alle forze dell’ordine. Un dato sconfortante emerso soprattutto relativamente all’omicidio di Franco Quirino, imputato al processo Alta tensione come uomo del clan, ma ucciso pochi giorni prima della sentenza.
Per quel delitto, sempre oggi è stata eseguita una misura di custodia cautelare a carico di Natale Crisalli, un soggetto con cui la vittima aveva avuto una forte diatriba – degenerata in spari in pubblica piazza e rappresaglie contro l’abitazione dello stesso Crisalli – proprio il giorno precedente all’omicidio. «Non siamo ancora stati in grado di identificare il responsabile dell’omicidio di Quirino, ma a carico di Crisalli sono emersi indizi di colpevolezza per tentato omicidio e porto abusivo d’armi, talmente chiari da permettere di eseguire una misura cautelare nei suoi confronti», spiega il comandante Grimaldi. Indizi, dati ed evidenze raccolti faticosamente già a partire dalle ore successive all’omicidio, perché a Modena nessuno vede e nessuno sente. Anche quando si spara sotto le finestre di casa.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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