REGGIO CALABRIA Non aveva sentore di indagini a suo carico, né gli erano state appena strette le manette ai polsi, non era sotto processo tanto meno aveva da scontare pesanti condanne. Se il pentito che ha permesso agli inquirenti di scardinare il traffico di droga gestito da Giuseppe Jerinò ha deciso di parlare, è perché ha avuto concreta, reale cognizione di quanto la sua vita fosse a rischio.
La visita del boss e la decisione di collaborare
Un dato emerso in maniera palese per il collaboratore nel febbraio 2012, quando lo stesso boss si è presentato a casa sua pretendendo a gran voce di vederlo e insistendo tanto violentemente per entrare in casa, da tentare di sfondare a calci la porta d’ingresso. Una richiesta – o meglio una pretesa – cui il collaboratore ha risposto picche, non solo perché detenuto ai domiciliari, ma soprattutto per il timore delle possibili conseguenze di quella che all’epoca non si preannunciava come visita di cortesia. È stato allora che l’uomo ha deciso di chiamare – terrorizzato – i carabinieri di Gioiosa Jonica, chiedendo loro di intervenire in proprio soccorso e annunciando anche importanti rivelazioni sui traffici di droga gestiti dal boss Jerinò. Una “promessa” che l’allora aspirante pentito ha mantenuto. Per i magistrati, infatti, «le investigazioni effettuate hanno consentito di riscontrare pienamente le parole del collaboratore attraverso attività intercettive, pedinamenti, e, soprattutto, sequestri di due carichi di stupefacenti. Tali elementi probatori si sono incastonati armonicamente con il narrato del collaboratore». Circostanze che lo hanno reso agli occhi degli inquirenti «intrinsecamente ed estrinsecamente attendibile» – si legge nel decreto di fermo – anche perché l’uomo «non si è limitato a riferire circostanze e fatti a carico di terze persone, bensì ha avuto la forza di autoaccusarsi della commissione di reati gravi, sino a quel momento non emersi nel corso delle indagini, ben conscio delle pesanti ripercussioni sanzionatorie che le dichiarazioni rese contra se avrebbero comportato ai suoi danni». Rivelazioni che hanno permesso agli inquirenti di scoprire modalità operative, canali di fornitura, strumenti utilizzati per eludere i controlli e persone coinvolte nel traffico di droga gestito dal boss Jerinò, vecchia conoscenza per investigatori ed inquirenti, più volte finito al centro delle indagini della Dda, ma ancora in grado di tessere rapporti e affari da Gioiosa Jonica all’America Latina.
L’organizzazione
Affari che Jerinò non gestiva in solitudine. A coadiuvarlo – racconta il pentito – c’era in primo luogo il broker Angelo Scuteri, ma anche il commerciante di mobili d’arredamento nonché proprietario della ditta “Mobil Sud” di Roccella Jonica, Rocco Ameduri, un giovane autotrasportatore originario di Caulonia, Marino Vallelonga, che assicurava le comunicazioni fra i tre, e Salvatore Jacopetta, formalmente di professione mobiliere, ma in realtà persona di fiducia del boss Jerinò da lui incaricato di tenere i rapporti con il broker per la riuscita delle operazioni. A finanziare i traffici – svela il pentito agli inquirenti – era sempre il boss, forte dell’immenso patrimonio occultato in una serie infinita di immobili e società intestati a “insospettabili” terzi. Società come la “Mondo parquet” di Santhià – formalmente di proprietà di Scuteri, ma in realtà nella disponibilità totale del boss – utile non solo a giustificare formalmente le continue importazioni dall’America Latina, ma anche come base logistica per ricevere gli ingenti carichi di cocaina che l’organizzazione occultava nei bancali di legno. Da Santhià, tramite un corriere di volta in volta individuato, i “preziosi” bancali venivano trasportati nell’area della Locride, dove la droga veniva estratta e smerciata. Un meccanismo che il collaboratore conosce alla perfezione perché un tempo ne era riconosciuto ingranaggio.
Una talpa nel cuore del clan
È infatti a casa della sorella che nel giugno del 2011 viene fatta arrivare una partita di cocaina di circa 55 kg nascosta in una fornitura di parquet, prelevata dallo stesso boss e dai suoi familiari una volta giunta a destinazione e immediatamente smerciata o sotterrata in terreni “sicuri”, mentre è sempre per ordine di Jerinò che nell’agosto del 2010 il collaboratore si reca a Buenos Aires per incontrare Scuteri, incaricato di trattare l’acquisto di una consistente partita di droga. Sempre lui, qualche mese più tardi, sarebbe stato spedito dal boss in Spagna per provvedere a depositare – presso una non meglio indicata agenzia di Madrid – 150mila euro in contanti a titolo di anticipo. Un lavoro per una “persona di fiducia” che agli inquirenti ha permesso di conoscere i dettagli più minuti delle transazioni legate ai traffici, dalle procedure di controllo – dopo aver effettuato il versamento, il pentito è stato obbligato a chiamare da una cabina telefonica per comunicare l’avvenuto deposito – ai “costi di gestione”, 10% dell’importo all’agenzia di Madrid, 5% a quella presso cui i fornitori avrebbero ritirato l’acconto.
Contabilità
Traffici su cui non solo il collaboratore ha ampiamente riferito, ma di cui è stato in grado anche di fornire una prova concreta, consegnando agli inquirenti la “contabilità” di Jerinò. Un semplice bigliettino, scritto su entrambe le facciate con inchiostro blu che rischia di essere una devastante e definitiva prova a carico per il boss, che con precisione maniacale aveva annotato da una parte, la quantità dello stupefacente posseduto, ceduto a terzi e rimanente, e dall’altra il denaro che si prevede di ricavare dalle rispettive cessioni. Giuseppe Jerinò è preciso. Su quel pizzino che affida all’uomo che oggi è un collaboratore, ma all’epoca era considerato persona così vicina da essere incaricato di curarne gli affari in caso di arresto, appunta che dei 55 chili di cocaina arrivati a Gioiosa nel giugno 2011, ha ceduto prima uno stock da 19 chili, quindi quattro partite più piccole, una da 10 chili, due da 5 e una da 3. Con la medesima maniacalità, sull’altra facciata appunta le cifre che si aspetta di incassare. Prezzi che implicano un ricavo netto da capogiro. Gli investigatori infatti appuntano: «Alla luce di quanto sopra si può affermare con assoluta certezza che Jerinò Giuseppe ha praticato il prezzo di vendita dello stupefacente (cocaina) a 35mila euro al chilo, pertanto con un ricavato netto al chilo di 29/30mila euro».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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