Tragedie di ieri e di oggi
Il film “Anime nere” di Francesco Munzi non è la trasposizione cinematografica dell’omonimo libro di Gioacchino Criaco pubblicato nel 2008. Attinge però dal romanzo numerosi spunti, l’ambientazione…
Il film “Anime nere” di Francesco Munzi non è la trasposizione cinematografica dell’omonimo libro di Gioacchino Criaco pubblicato nel 2008. Attinge però dal romanzo numerosi spunti, l’ambientazione, alcuni personaggi, lo sfondo mafioso, le vicende cruente che caratterizzano la vita e le attività delle cosche di Africo. Lo stesso Criaco ha collaborato alla sceneggiatura del film, che sta ottenendo un meritato successo nelle sale di tutta Italia e all’estero. Al di là dell’andamento narrativo, quello che più distingue l’opera cinematografica da quella letteraria, è il substrato ideologico di quest’ultima, non del tutto esplicitato, ma secondo me evidente, una sorta di giustificazionismo della violenza dei giovani protagonisti della storia, ai quali l’autore attribuisce l’indignazione ribellista contro le regole opprimenti dell’ambiente mafioso tradizionale, contro le ingiustizie e i soprusi della società e dello Stato. Il tutto in nome del diritto ad una vita nuova, lontano dal territorio di origine, Africo, per cercare fortuna e ricchezza al Nord, con qualsiasi mezzo, fosse pure con i sequestri di persona, il traffico di droga, gli affari sporchi. Non a caso, lo scrittore scrive in prima persona, attraverso il personaggio principale.
Il film ha invece il merito di non esprimere valutazioni, commenti, giudizi. Il regista si pone come spettatore freddo e imparziale rispetto alla successione degli eventi, che si snodano secondo una logica interna, inesorabile e spietata, senza che i protagonisti abbiano alcuna possibilità di mutarne il corso. Sotto questo profilo appare condivisibile il paragone di chi ha accostato il film alla tragedia greca, per la comune presenza di “Ananke”, la necessità, che diviene destino, fato, la dea greca, cui è stato eretto un tempio a Corinto. Come nella tragedia greca, il coro segue e commenta i passaggi luttuosi con preghiere e lamenti funerari, (l’unico spazio riservato alle donne), mentre i protagonisti maschili vanno incontro ciecamente alla tragedia che la storia, l’ambiente, fa incombere su di loro senza speranza. Dei tre fratelli, Luigi, Rocco e Luciano, i primi due scelgono la modernità: dopo l’uccisione del padre si trasferiscono a Milano, per gestire, il primo, il traffico internazionale di cocaina, il secondo, attività imprenditoriale lecita, almeno all’apparenza. Nessuno dei due riuscirà, tuttavia, a sottrarsi alla “necessità” di rientrare nei luoghi di origine, ove saranno risucchiati dalle vecchie logiche mafiose dalle quali finiranno travolti. Paradossalmente, l’unico a tentare di opporsi è Luciano, il fratello più anziano, che rifiuta la logica della ricchezza, della violenza e della vendetta e sceglie di rimanere in paese, nell’illusione (rivelatasi tragicamente vana) di proseguire nella tradizione pastorizia familiare e salvarsi dalla maledizione dell’ambiente attraverso l’onestà, il lavoro, la fede. La ribellione di Leo, figlio di Luciano, rappresenta il fattore di rottura degli equilibri, irrompe, come evento naturale inevitabile, nella vita della famiglia, determinando il tragico epilogo.
Il linguaggio del film è perfetto: nessuna immagine, nessuna parola, di troppo. Ognuna di esse è tanto più espressiva, quanto più è rigorosa, laconica, essenziale, senza sbavature, compiacimenti, divagazioni. Le parole sono pronunciate – in un dialetto calabrese (quasi) perfetto – rare e pesanti come macigni, e si accompagnano ai volti di pari espressività, arcaica, intensa. I paesaggi – sia quello marino (la spiaggia incontaminata di Africo Nuovo, ancora oggi riservata solo alle capre), sia quello montano –, sono bellissimi, anch’essi crudi e spietati, perfetto scenario nel quale si muovono uomini e donne della storia.
Aggiungo ancora qualcosa sui luoghi del film. Tranne poche scene iniziali girate a Milano (l’Eden mitico e illusorio di un impossibile riscatto), la storia si svolge tutta tra Africo Vecchio e Africo Nuovo. Il primo, appare come un agglomerato di case informi, diroccate, per la maggior parte vuote. Il secondo, manifesta la sua distruzione attraverso facciate incompiute, finestre vuote, scale senza ringhiera, alle quali si contrappongono interni (quelli abitati da vecchi caprai, divenuti capimafia) dallo sfarzo di disgustosa pacchianeria, ostentazione e volgarità, complemento ideale dei loro abitanti, prigionieri della propria sordida ricchezza criminale. Qui, secondo me, il regista ha voluto esprimere il segno della rovina di un territorio e dei suoi abitanti, l’impossibile speranza di un recupero, di una via di uscita, di una salvezza. Quel mondo è rappresentato nella fase della sua irredimibile distruzione, nel crollo delle mura e delle persone che vi abitano, dei falsi valori che rappresentano e che hanno condotto alla fine della civiltà contadina, che presumevano di estinta sotto l’urto dell’arricchimento violento e criminale.
La vecchia ‘ndrangheta, espressa dai volti disfatti dei suoi capi, è destinata a scomparire, come ci mostrano le immagini di un film di assoluto livello artistico; quel mondo è finito per sempre, per autodistruzione. Ne restano però le tracce, il degrado umano e territoriale dei luoghi, probabilmente incancellabili, tanto profonda è stata l’opera della distruzione, ne restano le propaggini sparse in Italia e nel mondo, con nuove identità, metodi, valori. Poco importa al regista stabilire le responsabilità della tragedia che rappresenta, anche se le sue dimensioni rimandano assai più a quelle degli uomini che non a quelle della natura. Un punto è certo: quella tragedia colpisce perché ci riguarda tutti da vicino ancora di più di ieri. È nostra e saremo noi a doverne fare i conti.
*magistrato