ROMA Passa anche il vaglio della Cassazione il processo Meta. Fatta eccezione per Vitaliano Grillo Brancati, per il quale i legali hanno spuntato un nuovo processo d’appello, e Giovanni Canale, il cui reato si è estinto per prescrizione, la Suprema corte ha sostanzialmente confermato le condanne inflitte nel giugno 2013 dalla Corte d’appello di Reggio Calabria. Sono dunque definitive le condanne di Pasquale Buda (10 anni e 2 mesi di reclusione), Santo Fortunato Le Pera (7 anni), Domenico Barbieri (5 anni e 10 mesi), Antonio Cianci (6 anni), Domenico Corsaro (6 anni), Francesco Priore (7 anni), Giandomenico Condello (8 anni), Domenico Cambareri (7 anni), Demetrio Condello (6 anni), Giuseppe Greco (4 anni), Salvatore Mazzitelli (1 anno e 8 mesi), Francesco Condello (1 anno e 8 mesi), Domenico Francesco Condello (1 anno e 8 mesi).
IMPIANTO CONFERMATO
Anche la Suprema corte ha dunque confermato l’impianto accusatorio costruito dal pm Giuseppe Lombardo, che con la sua rivoluzionaria inchiesta ha scattato la fotografia più attuale degli assetti e degli equilibri interni alla ‘ndrangheta reggina. Un mosaico complesso, profondamente mutato rispetto a quello molecolare di epoca precedente al conflitto, ma con esso in linea di continuità. Un mosaico in cui l’apparato più visibile delle ‘ndrine continua a darsi appuntamento a Polsi, ma a governare è un direttorio formato dalle principali famiglie reggine – Tegano, De Stefano, Condello, Libri – che si è affermato all’indomani della seconda guerra e da allora ha stabilito le proprie leggi, imparando a gestire in regime di concordia tanto gli affari come i contrasti interni che rischiavano di far saltare i delicatissimi equilibri, raggiunti al prezzo di un conflitto da oltre settecento morti ammazzati.
I NUOVI EQUILIBRI
È successo – hanno rivelato i pentiti, sia in fase di indagine, sia in dibattimento – quando Peppe De Stefano, ha voluto rivendicare per sé il ruolo che era stato del padre, quel don Paolino che della potenza dei De Stefano come holding criminale è stato il demiurgo. Sarà lui, ha rivelato più di un collaboratore, a prendere in mano le redini della famiglia con l’appoggio dell’avvocato Giorgio. Ma soprattutto con il benestare di Pasquale Condello, quel “Supremo” che si interpone nel conflitto fra i De Stefano e i Tegano con il fondamentale ruolo di mediatore. Uno scenario inimmaginabile solo una decina di anni prima, quando i Condello da una parte e i De Stefano-Tegano dall’altra si erano fatti la guerra, ma che è in assoluta continuità con il regime che quel conflitto precede. Un regime in cui è all’ombra di don Paolino che nasce e cresce l’astro criminale di quello che diventerà il Supremo. Lo stesso personaggio che vent’anni dopo – ha svelato l’inchiesta Meta – restituisce al figlio la carica e il ruolo che trent’anni prima erano stati del padre.
IL DIRETTORIO
Sono questi i principali protagonisti di quel direttorio – ha affermato l’inchiesta Meta – che dalla fine della seconda guerra di ‘ndrangheta si è dimostrato in grado di gestire la vita economica, politica e sociale della città. Una struttura che, in linea di continuità con quei patti fra ‘ndrine, massoneria, servizi e pezzi di Stato svelati dall’inchiesta Olimpia, nei decenni successivi è diventata altro. O meglio, parte di altro. Un “altro” non ancora definito in sede giudiziaria ma che l’inchiesta “Sistemi criminali” dell’attuale procuratore capo di Palermo, Roberto Scarpinato, ha abbozzato, l’indagine Meta ha iniziato a definire e Breakfast si candida a completare.
IL TERZO LIVELLO
Una struttura che va ben oltre la Calabria, ben oltre le ‘ndrine, radicata e sviluppata nel tempo su tutto il territorio nazionale, così solida da non necessitare neanche di incontri o riunioni periodiche, ma capace di riattivarsi immediatamente – anche a distanza di decenni – su preciso e inconfondibile input. Una struttura la cui esistenza è stata confermata dalle parole di collaboratori – un tempo uomini di peso del sistema criminale tanto in Calabria come in Sicilia o Lombardia – che da tale struttura si sono spesso visti sovrastare senza riuscire a comprenderla fino in fondo, come l’ex braccio destro dei fratelli De Stefano, Nino Fiume, il collaboratore lombardo Antonio Belnome o il siciliano Vincenzo Sinacori, reggente del mandamento di Mazara del Vallo.
Dichiarazioni che si incrociano e trovano conferma nelle rivelazioni fatte in tempi diversi da altri pentiti, come Pasquale Nucera, Filippo Barreca e ancora una volta un siciliano, Gioacchino Pennino, o nelle conversazioni intercettate del boss Luni Mancuso.
E tutti parlavano e parlano di un livello ancora invisibile, ma determinante nel guidare le scelte strategiche non solo locali o regionali, puntuale e preciso nel rispondere quando si sente minacciato, dotato di occhi e orecchie altrettanto impercepibili, ma sempre all’erta quando ipotesi investigative si dimostrano di così ampio respiro da trascendere la dimensione di chi si diletta con cariche e santini, arrivando a toccare i centri decisionali dei nuovi sistemi criminali. E forse, almeno in parte, dello Stato stesso.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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