REGGIO CALABRIA Imprenditori minacciati, malmenati, costretti a pagare cifre esorbitanti: l’unico lessico conosciuto dagli uomini della ‘ndrina Rumbo-Galea-Figliomeni”, articolazione della cosca Commisso, attiva nella Locride come in Canada, era quello della violenza. Psicologica o fisica che fosse, veniva distribuita ecumenicamente fra imprenditori e commercianti in ritardo con la rata del prestito a strozzo loro elargito e che erano costretti – con le buone o con le cattive – a pagare. Ma la violenza, la minaccia, la paura era per gli uomini del clan lessico comune non solo nei rapporti d’affari, ma anche personali, familiari. Lo dimostra la denuncia – coraggiosa – presentata in corso d’indagini da Teresa Figliomeni, moglie di Cosimo Figliomeni, da tempo latitante in Canada.
L’AGGRESSIONE
La donna arriva alla stazione dei carabinieri nel tardo pomeriggio del novembre scorso. È in lacrime, ferita, terrorizzata. Confusamente racconta ai militari di essere stata picchiata e malmenata dal cognato e di essere riuscita a sfuggire solo per miracolo al pestaggio. Quando mesi dopo viene chiamata a mettere in ordine gli eventi tanto da formalizzare in un verbale le sue accuse, quello che emerge è la storia nota di troppe donne condannate a essere mero accessorio del proprio compagno di vita. E che quando di ribellano, vengono ricondotte sulla “retta via” a suon di botte dal diretto interessato o da un suo familiare. Moglie di Cosimo Figliomeni, che ha deciso di seguire in Canada dove da anni trascorre la latitanza, Teresa è una donna ferita. Nonostante abbia deciso di buttare all’aria la propria vita e seguire il marito Oltreoceano pur di non convertirsi nella vedova bianca di un latitante, ha scoperto che il marito le è da tempo infedele. Dove non sono arrivati gli investigatori privati che aveva assoldato per stanarlo, è arrivata lei con un registratore piazzato sotto il sedile dell’auto che nel giro di poco tempo le consegna la prova del tradimento.
DIFFICOLTÀ CONIUGALI E QUELLA FUGA IN ITALIA
Liti, tentativi di negare anche l’evidenza, porte sbattute e letti vuoti: il copione è quello di ogni crisi coniugale, ma Teresa decide di dare un taglio netto. «Quando poi ho deciso di rientrare in Italia – riferisce agli investigatori – la sera prima ci siamo visti, lui mi ha detto di pensare ai nostri figli e siamo rimasti d’accordo che avrebbe mandato periodicamente delle somme di denaro per il nostro mantenimento, mio e dei ragazzi, anche perché io qui in Calabria non ho disponibilità economiche, né casa né automobile. Quando sono rientrata in Italia mio marito ha iniziato a non rispondere alle mie telefonate e comunque non mi ha mai mandato il denaro promesso per occuparmi dei ragazzi e per andare avanti. Questa situazione si è protratta fino ad oggi». Cosimo Figliomeni, racconta la donna si nega al telefono e quando risponde afferma di non avere possibilità di inviarle denaro. «Non è affatto vero che non ha la possibilità economiche di mantenere la sua famiglia perché lì a Toronto guadagna bene». Forse per punirla, forse per umiliarla, il boss oltreoceano continua a fare orecchie da mercante alle richieste di aiuto dei suoi. Ma Teresa persevera e va a presentare il conto alla famiglia di lui. Chiede alla sorella del marito, Lucia Figliomeni, moglie di Riccardo Gattuso, di intercedere per lei ma anche la solidarietà femminile fa cilecca.
LA “LEZIONE” DI GATTUSO
Presumibilmente, la donna ha riferito le richieste di Teresa al marito, il quale a sua volta ne ha parlato al fratello Davide. E sarà lui, il giorno dopo a «insegnare la lezione» a Teresa, quando va a prendere i figli a casa di uno zio che vive nel loro stesso stabile. «Non appena sono uscita dalla mia autovettura, non ho nemmeno fatto in tempo a citofonare a mio zio, che Gattuso Davide si è avventato su di me e ha cominciato a percuotermi; in particolare, per circa cinque minuti, dopo avermi scaraventato a terra, mi ha preso a pugni, calci, mi ha preso dai capelli, mi ha stretto le mani al collo, i colpi che ho sentito di più sono stati all’addome e alle gambe. Mentre mi colpiva minacciava di ammazzarmi, mi intimava di stare zitta perché io urlavo». Una vera e propria furia omicida che non si ferma neanche davanti allo zio della donna, sceso in strada insieme al figlio di soli sette anni. Toccherà alla moglie, Sara Gattuso, separarli fisicamente, ma neanche questo è bastato a sedare l’uomo. «Sono riuscita a scappare – riferisce – e a rifugiarmi nella mia autovettura ma Gattuso mi ha seguito ed è riuscito persino ad entrare nella parte posteriore dell’abitacolo. Con una manovra sono riuscita a fuggire lasciandolo in strada».
IL CORAGGIO DI UNA DENUNCIA…
Teresa corre alla stazione dei carabinieri più vicina, quella di Siderno, per denunciare l’accaduto, poi insieme ai militari torna a casa dello zio, lì dove anche i Gattuso abitano, per portare via la figlia, che nel frattempo aveva avvisato la polizia di tutto l’accaduto. «Nel momento in cui lasciavo per la seconda volta l’abitazione di mia cognata per recarmi in ospedale, Davide Gattuso, dalla finestra dell’abitazione della casa di mia cognata, mi ha minacciato dicendomi che se avessi sporto denuncia l’avrebbe fatta pagare a me e ai miei familiari e di ricordarmi il suo nome; queste sono state le sue testuali parole. Questo riferimento al suo nome l’ho inteso nel senso che dovevo ricordarmi chi era lui, del ruolo importante che riveste nella famiglia e di cosa può essere capace», mette a verbale la donna, che però con estrema lucidità precisa riguardo il suo aggressore che lui «non prende iniziative senza avere il permesso di mio cognato Angelo Figliomeni, di suo zio Franco Rumbo e del fratello Riccardo Gattuso. In questo senso manifesto tuttora il timore di possibili ritorsioni per quanto accaduto nei confronti della mia persona, pur ritenendo ancora che si muoverà in tal senso soltanto con l’accordo degli altri familiari che ho citato». La determinazione di Teresa non dura a lungo. Dopo qualche tempo, ritira – o è costretta – a ritirare la denuncia, rifiuta la protezione e rimane a Siderno con i figli.
…CHE DURA SOLO POCHI MESI
Ai magistrati spiegherà che: «Quella sera ho sporto denuncia perché pensavo che Davide Gattuso potesse essere subito arrestato per quello che mi aveva fatto. Adesso che mi sono resa conto che così non è stato, non ho più interesse a procedere oltre contro di lui e lascio che venga giudicato da Dio, anche se per me è morto e non voglio neanche salutarlo». È consapevole – dice ai magistrati – di essere stata minacciata di morte e ritorsioni, ma – sostiene – non ha paura. In ogni caso, «se dovesse succedermi qualcosa anche a distanza di tempo, sarebbe sicuramente per causa sua. Lui mi ha fatto sapere da familiari che io non devo avvicinarmi alle cose che appartengono a lui altrimenti ne subirò le conseguenze, non ricordo se questa cosa me l’ha detta me o zio Baggeta, o altri familiari». Tuttavia, alcune informazioni utili agli inquirenti per precisare il ruolo di Gattuso, Teresa le ha fornite. Ventila che sia responsabile di una serie di rapine a Donisi, perché «sono cessati con l’arresto di Gattuso», ma soprattutto che più volte – dopo la morte di uomini del clan come Sam Calautti – più volte si presentato in Canada.«Posso ritenere ma non ne ho la certezza che afferma – che Gattuso portasse imbasciate da e per il Canada ad altre persone». Tutti elementi che corroborano l’dea che gli inquirenti si erano fatti di Gattuso: un uomo di rilievo nell’ambito del clan satellite dei Commisso, estremamente pericoloso meritevole sono di stare dietro le sbarre.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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