L'avvocato massone amico delle 'ndrine
REGGIO CALABRIA Era potente – e magari lo è ancora – la loggia coperta della massoneria reggina usata dalle ‘ndrine come camera di compensazione. Ed era rilevante – svela il collaboratore Cosimo Virg…

REGGIO CALABRIA Era potente – e magari lo è ancora – la loggia coperta della massoneria reggina usata dalle ‘ndrine come camera di compensazione. Ed era rilevante – svela il collaboratore Cosimo Virgiglio al pm Giuseppe Lombardo – il ruolo che il dottore Francesco Pellicano vi ricopriva. Il suo – afferma – era un nome che si poteva spendere per accreditarsi. O almeno così ha fatto il misterioso legale che si è presentato – non atteso – ad uno dei primi interrogatori da pentito di Virgiglio.
CONFRATELLO IN TOGA Il nome dell’avvocato è coperto da omissis, ma quello che è chiaro e palese è invece il suo ruolo di difensore. E non nell’interesse del collaboratore, ma di quello dei clan. «Era stato avvisato», spiega Virgiglio, ricostruendo quel pomeriggio. Ad avvertire il pentito della presenza dell’avvocato sarebbe stato il pm, il quale – informato della presenza del legale – avrebbe chiesto a Virgiglio se volesse farlo assistere all’interrogatorio. «Ho detto io: “un attimo, dottore omissis, mi accompagni? Sì … e andammo». E la conversazione che per il pentito ci sarebbe stata a seguire è molto strana.
MI MANDA PELLICANO Il misterioso difensore si sarebbe presentato da Virgiglio, affermando «mi ha nominato tua moglie … no, a dire il vero ti ho nominato io … la nomina l’ho fatta io.. Su imposizione di mia moglie». Una nomina strana, o quantomeno anomala. Non solo per le modalità, ma anche perché il misterioso legale non sarebbe stato infatti uno “specialista” di collaboratori. «Dice: io, vengo, sono amico di questo Pellicano, mi disse». Un nome speso con noncuranza – all’epoca il dottore Pellicano era ancora incensurato, ma già un nome di peso nella loggia reggina – ma che sembra introdurre una conversazione che poco sembra avere a che fare con un mandato difensivo.
COLLABORI? RISOLVIAMO IN MODO DIVERSO «Dice: no, io vorrei capire, dice, cosa sta facendo lei, che non fa … e ho detto: e che faccio, dico, sono qua a collaborare, lei l’ha letta la mia ordinanza? – dice Virgiglio, ricordando quel botta e risposta fra lui e il legale –. Sì, l’ho scaricata tutta sul pennino… ah, e mi fa piacere, e che cosa ne dice?.. Mah, la possiamo affrontare in modo diverso». Quale fosse, l’avvocato fa presto a spiegarlo. «Mi raccomando però – rammenta di essersi sentito dire Virgiglio – sua moglie ha paura, dice, non faccia i nomi di certe persone, non faccia i nomi di questo, di quell’altro, mi raccomando, salvi i “nini”».
«SALVA I “NINI”» Un soprannome per il quale il pentito non ha bisogno di spiegazione e che anche al pm sembra cristallino: sono «i giovanotti» della cosca Molè, divenuti nel tempo plenipotenziari reggenti del clan. E sebbene – allo stato – i loro nomi nei verbali siano coperti dagli omissis, nelle ordinanze che negli anni successivi hanno interessato il clan Molè, l’espressione si ripete spesso. E altrettanto spesso indica Antonio Molè “U Iancu”, figlio di Domenico, e il cugino Antonio Molè “U Niru”, figlio di Gioacchino. Quando Virgiglio viene arrestato e inizia a collaborare i due hanno circa vent’anni, ma già mostrano di avere tutte le caratteristiche per rivendicare il ruolo dirigente che era stato dei rispettivi padri. Per questo, probabilmente, andavano salvati. E non da soli.
ISTRUZIONI Questo – dice Virgiglio al pm Lombardo – era palese nelle parole del legale, sebbene da lui non fossero arrivate altre esplicite istruzioni. «Non mi disse i nomi che non … attenzione ai nomi che…fa proprio così», spiega il collaboratore che in quell’occasione dal misterioso avvocato avrebbe ricevuto una missiva. «Dice: questa qui è la lettera di separazione che sua moglie le fa, me l’ha mandata, dice … e in quel momento, dottore, ho dovuto giocare un po’ d’astuzia».
DOPPIO GIOCO Stando a quanto riferisce Virgiglio, all’epoca il pentito si sarebbe mostrato aperto e disponibile alle istanze dell’avvocato, mandando un messaggio chiaro anche ai suoi reali committenti. «Io – racconta – presi questa lettera, dissi: me la presta la penna? e gli scrissi qua: portare un paio di scarpe Hogan numero quarantuno, io ho quarantaquattro… avvocato, neanche la voglio leggere, ho detto io, la lettera, la lettera di separazione, la porti a mia moglie, le dica… che mi serve che le devo portare ad un malandrino della “esse”». Virgiglio dunque avrebbe simulato di prestarsi alle regole del gioco proposto dal legale, acquisendo – suggeriscono i lunghi omissis che coprono le sue successive dichiarazioni – ulteriori informazioni. Elementi che oggi potrebbero aprire nuovi squarci di verità non solo su una loggia che molto sembra aver pesato sul destino economico, politico e criminale di Reggio Calabria e della Piana, ma – stando a qualche indiscrezione – forse anche sull’esito controverso di alcune vicende giudiziarie.
Alessia Candito
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