Gli errori che offendono la sanità
Non c’è peggiore cosa dello sciacallaggio che interviene nel sociale, di quell’insieme di comportamenti che depredano, approfittando del disastro, i diritti altrui. Specie di quelli posti a tutela de…

Non c’è peggiore cosa dello sciacallaggio che interviene nel sociale, di quell’insieme di comportamenti che depredano, approfittando del disastro, i diritti altrui. Specie di quelli posti a tutela della salute e dell’assistenza.
È l’argomento che avrei voluto affrontare nel corso dell’iniziativa pubblica, cui ero stato invitato dalla brava deputata Dalila Nesci, che si terrà sabato prossimo a Catanzaro. Un appuntamento che non potrò onorare solo perché impedito da un non rinviabile impegno gastronomico, noto agli organizzatori e al mio amico Filippo Veltri.
Approfitto della ospitalità del generoso e arguto Pollichieni per scrivere qui ciò che avrei voluto sottoporre all’attenzione dei partecipanti all’anzidetta iniziativa.
La sanità in Calabria è offesa, da tempo, da tre ricorrenti errori.
Il primo la confusione nei ruoli. Nella nostra Regione ci troviamo di fronte ad un grande equivoco, degno di una bella gag televisiva. È come se, entrando in un rinomato ristorante, si fosse scambiato l’idraulico che trovasi lì per caso con il grande chef, che lo rende rinomato. Dunque, fuori uso i migliori ingredienti e generazione di pietanze di pessimo gusto. Stessa cosa è avvenuta nella sanità calabrese, ove invece di partire dalla rilevazione del fabbisogno epidemiologico e assistenziale per generare una sana programmazione si è preferito confonderla con la ricognizione dell’esistente. Quindi si è programmato il peggio del peggio. Si sono lasciati in piedi i musei della sanità occupati, spesso, dai capolavori che la politica degli anni orsono ha preposto a capo dei reparti (oggi Unità operative complesse, non trascurando ovviamente quelle semplici e quelle di nuova generazione appellate come “dipartimentali), diretti da un management non propriamente all’altezza (fatte le dovute eccezioni). Si è evitato poi di incidere sulla assistenza territoriale, nel senso di crearla dal nulla, o quasi.
Il secondo afferisce alle soluzioni. A proposito, è appena il caso di precisare il comune dire, secondo cui il rimedio diventa spesso peggiore del male. È ciò che avvenuto in Calabria, con l’assoggettamento al piano di rientro ma soprattutto con il commissariamento. Un istituto individuato costituzionalmente, nei cui confronti si è invasa una interpretazione a dire poco dilettantistica. Chiunque ha detto la sua senza tuttavia leggere bene la copiosa giurisprudenza della Consulta che ha attribuito al commissario compiti meramente gestori e di sorveglianza dell’intervento Accordo Stato-Regione interessata. Non altro. Un assunto che ha di fatto lasciato inalterato, del resto non poteva essere altrimenti, l’esercizio legislativo in capo al consiglio regionale e la facoltà politica della Regione di pretendere nei confronti dell’altra parte contrattuale (il governo) di modificare il contenuto dell’Accordo, di natura meramente pattizia. Un errore di valutazione che ha portato in Calabria i commissari ad acta, i consigli regionali e i presidenti che non meritava.
L’ultimo riguarda la creatività. Siffatta specialità rappresenta la migliore delle qualità possedute dalla pubblica amministrazione domestica, al lordo dei suoi massimi preposti. C’è stato chi ha interpretato e interpreta il ruolo di dirigente in modo reverse da come lo pretende il legislatore (d.lgs. 165/2001), divenendo spesso il tappetino dei voleri della politica. C’è quella politica che ha condizionato le nomine “fiduciarie” in base alle soglie di servilismo dimostrato dai perenni nominati. C’è ancora chi presume, attraverso l’esercizio di poteri posseduti in forza della kryptonite, di adottare super-decreti per il tramite dei quali sconvolgere i contenuti delle leggi esistenti ovvero di assumere atti equivalenti ai decreti legge. Il tutto senza contare quanto scritto nella Costituzione, invero un po’ astruso a comprendere per gli ingegneri.
Su tutto poi si dimentica il contenuto dei provvedimenti cogenti, dal rispetto dei quali dipende la salute dei cittadini e l’assistenza agli ammalati. Sul D.M. 70/2015, che prescrive i requisiti che le strutture devono possedere per erogare la sanità che si deve, nulla o poco. Si cerca di questuare altrove e raccogliere altrove pezzi di requisiti che non si hanno per accampare “diritti” di sopravvivenza, pericolosi per le collettività.
Quella collettività affamata altresì da prestazioni, spesso necessarie, impedite dalla combine negativa venutasi a creare dal decreto Lorenzin e dalla frequente “viltà” prescrittiva dei medici di famiglia.
Un saluto a tutti i partecipanti, in particolare al buon Emiliano Morrone che ha fatto di tutto per distrarmi dal mio irrinunciabile impegno pieno zeppo di lipidi.
*Docente Unical