Una regista (reggina) ha conquistato Berlino
REGGIO CALABRIA Nel 2009 Sophia Luvarà si trovava in Cina. A quel tempo, il suo film “Inside the China Closet” era solo un’idea. «Lì ci ho pensato per la prima volta, poi l’ho messo in un cassetto»…

REGGIO CALABRIA Nel 2009 Sophia Luvarà si trovava in Cina. A quel tempo, il suo film “Inside the China Closet” era solo un’idea. «Lì ci ho pensato per la prima volta, poi l’ho messo in un cassetto». Adesso quella stessa idea è diventato un documentario di osservazione che ha partecipato alla 66esima edizione del festival internazionale del Cinema di Berlino 2016 (11 – 21 febbraio). Messo da parte, il film ci ha impiegato cinque anni per vedere la luce, fino al 2011 considerato dalla regista «l’anno della svolta», quando venne ammessa al “Documentary Campus Masterschool” un programma tedesco intensivo per registi di documentari in cui vengono scelti 15 progetti in un anno. Sophia non ha dubbi: «Ha cambiato completamente la mia carriera. Lì ho iniziato a sviluppare il film, lavorandoci sempre in maniera costante». Un’esperienza che le ha insegnato tanto. Trentatreenne reggina, affronta la vita con la valigia in mano. Vive a Londra dal 2007, ma è stata in Cina e in Olanda. Qui si è fermata il tempo necessario per trovare i fondi per questo progetto. La Witfilm, casa di produzione olandese le ha permesso di realizzarlo. Il suo genere cinematografico è il documentario di osservazione che considera «un modo particolarmente efficiente ed efficace per parlare di tematiche sociali importanti senza annoiare la gente».
Si è occupata della vita degli immigrati africani che si oppongono alla ‘ndrangheta in un paese del Sud Italia in “The Great Mafia Orange Squeeze” (2011,UK/Italy) e di cosa rappresenti il lavoro per le donne arabe israeliane in “The Road to Fureidis” (2011 – UK). Nel 2013 ha vissuto embedded per tre settimane con i soldati italiani in Afghanistan per realizzare il documentario “Soldati‐Missione Afghanistan” per Mtv. «Una volta arrivata mi accorsi che la gente che sta lì da tanti anni ha una vita quotidiana in cui non sta a pensare al pericolo che c’è là fuori. Appena succede qualcosa, però, ti rendi improvvisamente conto di dove sei e cosa stai rischiando».
In “Inside the China Closet”, Sophia tratta il tema dell’omosessualità in Cina; non più reato da 15 anni, ma immorale per molti. Soprattutto per le famiglie; quelle famiglie che costringono i figli gay a matrimoni combinati al fine di avere una progenie che possa accudirli in vecchiaia. In un Paese che non prevede un sistema pensionistico, avere dei figli è necessario più che voluto. Anche a costo di comprarli al mercato nero. Dopo la Berlinale, la carriera di Sophia è cambiata: «La gente che vuole il nostro film per farlo vedere nei festival in giro per il mondo sta intasando la nostra casella e – mail». Ma molto prima di Berlino; molto prima dei lavori in giro per il mondo, il suo percorso di studi in Italia andava in tutt’altra direzione.
Ha una laurea specialistica in Biotecnologie all’università di Torino. È passata dal dottorato di ricerca sul cancro, alla London Film Academy. Come è avvenuto questo cambio di rotta?
«Ho studiato a Torino e, subito dopo la laurea specialistica, ho vinto una borsa di studio all’ ospedale Molinette. Solo che, quando ho iniziato a fare la vita di laboratorio, mi sono accorta che non mi appassionava. Nel 2007, a 26 anni, ho mollato tutto e me ne sono andata. A guardare indietro, so che la mia è stata una reazione compulsiva, ma a oggi posso dirti che ho fatto bene».
Perché ha scelto il documentario come forma d’espressione?
«In realtà è stato un caso. In Italia non c’è questa cultura e non c’era neanche quando io ho iniziato. Mi ci sono approcciata un po’ alla volta. Ho incontrato nei vari festival europei gente che fa documentari di questo tipo – umanistici o di osservazione -, in cui vanno a vivere con i loro personaggi per dei mesi. La cosa che mi ha affascinata di più è lo stile di vita dei documentaristi. Mi piace dare voce alla gente che vive contrasti culturali».
Controllo delle nascite. Matrimoni combinati. Mercato nero del commercio dei bambini. Generazioni a confronto. Tradizione contro la modernità. Sono queste alcune delle tematiche che tratta in “Inside the China Closet” in cui l’omosessualità sembra fare da fil rouge.
«Sì, infatti l’omosessualità è soltanto una delle sfaccettature che si trovano nel documentario. Il centro del film è il rapporto tra genitori e figli; la necessità di rendere i propri genitori felici e orgogliosi. Ecco perché credo che questo sia un documentario universale: non si deve essere gay per riuscire e rivedere te stesso in alcune delle vicende dei personaggi. Poi ho voluto affrontare le tematiche che fossero attuali, come la compravendita dei bambini in cui il surplus di bambine fa aumentare i prezzi dei maschi i cui costi arrivano oltre i tremila dollari. Tutto questo l’abbiamo voluto toccare proprio per dare l’idea delle problematiche complesse che ci sono dietro le storie».
Quanto lavoro c’è stato dietro questo documentario?
«Il mio è un documentario di osservazione, quindi non ho usato fare tante interviste. Si sta lì e la telecamere spia la vita di questa gente che si fa i fatti propri. Io sono stata in Cina in totale otto o nove mesi; sono andata a vivere con loro. Ho tirato fuori ore e ore di materiale, perché devi stare lì e filmare, finché non succede qualcosa. Poi siamo riusciti a estrarre 70 minuti di film, ma sono partita da almeno una settantina di ore di girato».
Come è entrata in contatto con i protagonisti del film, Andy e Cherry?
«C’è stato un lungo periodo di indagine in cui ho lavorato con una ricercatrice cinese sul campo. Per almeno due anni noi siamo andate in giro in tutte le ONG in Cina, nei gay club e abbiamo conosciuto tanta gente. Trovare qualcuno che fosse disposto a esporsi è stata la parte più difficile. Appena ho visto Andy mi sono subito innamorata di lui come personaggio. È sotto un’enorme pressione. Si vede, anche nel modo in cui si esprime, che non si è accettato e ha un sacco di problemi. Così ho pensato fosse una storia perfetta la sua. L’incontro con Cherry, invece, è stato del tutto casuale fuori da un gay club. In realtà la sua storia non era quella che stavo cercando, perché lei è già sposata con un ragazzo gay. Ma lei è un personaggio così carismatico che ho deciso di seguirla ed è stata una scelta provvidenziale, perché poi lei mi ha portato dove vivono i suoi genitori: un paesino nel mezzo della campagna. Vivono nella povertà più assoluta vendendo gamberetti. Lì sono riuscita a utilizzare la sua storia per fare l’importante contrasto tra Shangai, in cui i giovani guadagnano abbastanza e fanno un certo tipo di vita e i propri genitori nelle campagne dove non hanno niente».
Su 3000 documentari il suo è rientrato nei 50 film della sezione “Panorama” della 66esima edizione del Festival di Berlino. Se l’aspettava?
«Siamo tutti caduti dalla sedia quando ci è arrivato questo messaggio. Anche perché avevamo fatto da poco la première mondiale all’IDFA (International Documentary Filmfestival Amsterdam), uno dei più grossi festival di documentari. Noi non pensavamo che sarebbe stato preso a Berlino, perché loro vogliono l’esclusiva. Siamo rimasti tutti entusiasti. Ci siamo organizzati per andare e quasi tutta la produzione era lì».
Quando lo vedremo in Italia?
«Sto cercando un distributore in Italia, ma non l’abbiamo ancora trovato, anche perché è difficile riuscire a piazzare un film in cinese con i sottotitoli in inglese. È vero che, avendo fatto adesso una première internazionale, ci vorrà un po’».
Progetti futuri?
«Ho un paio di richieste per curare la regia di alcuni lavori sempre in Cina, ma ancora non c’è niente di sicuro. Poi sto anche lavorando ad altri due progetti, uno dei quali – almeno quello a cui tengo di più – dovrò farlo tra Reggio Calabria e Messina, ma adesso non ti posso dire niente».
Miriam Guinea
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