Clan in Lombardia, condanne per tre calabresi
REGGIO CALABRIA Sono stati tutti condannati i tre imputati calabresi del procedimento Insubria, l’inchiesta della Dda di Milano che ha spedito dietro le sbarre vangelisti e sgarristi dei quegli stess…

REGGIO CALABRIA Sono stati tutti condannati i tre imputati calabresi del procedimento Insubria, l’inchiesta della Dda di Milano che ha spedito dietro le sbarre vangelisti e sgarristi dei quegli stessi locali di ‘ndrangheta – Fino Mornasco, Calolziocorte, Cermenate – disarticolati nei primi anni Novanta, che, una volta cessata di scontare la condanna, hanno ripreso i contatti e rivitalizzato il sodalizio. Un’indagine cui ha collaborato attivamente anche la Dda reggina, chiamata a individuare i referenti calabresi delle ‘ndrine al nord. Per i pm Adriana Sciglio e Antonio De Bernardo, e da oggi anche per il gup, si tratta di Giuseppe La Rosa, classe 1965, alias “Peppe La Mucca”, mammasantissima di Giffone condannato a 10 anni di carcere, e i partecipi Pasquale Valente e ad Antonio Mandaglio, puniti con sei anni. Per La Rosa, assistito dagli avvocati Andrea e Domenico Alvaro, il gup non ha riconosciuto le aggravanti di transnazionalità del reato e del reimpiego illecito del patrimonio dei clan, ridimensionando dunque la condanna rispetto alla severa richiesta del pm Sciglio, che per lui aveva chiesto una condanna a 16 anni. Stando a quanto emerso nell’inchiesta, Giuseppe La Rosa e il suo locale di Giffone erano i referenti unici dei locali lombardi di Fino Mornasco, Calolziocorte, Cermenate. Ed è proprio ricostruendo l’organigramma di rapporti, relazioni e interessi di La Rosa, che gli inquirenti sono riusciti a ricostruire vent’anni di radicamento dei locali di ‘ndrangheta in Lombardia, grazie anche a un sistema di intercettazioni a tappeto, che ha portato gli investigatori a monitorare 111 utenze e 24 luoghi di interesse. Circostanza temuta dagli uomini dei clan, che già in passato hanno pagato con arresti e condanne la poca cautela nelle comunicazioni. «Succede – racconta l’anziano capolocale di Fino Mornasco, Michele Chindamo – che da questa riunione avevano tutto registrato… microspie… capisci… i cellulari sono… io dico… ho in tasca un cellulare… è come avere in tasca un carabiniere… oggi come oggi… non… di cui oggi come oggi… questa qua era la Boccassini… il pubblico ministero che ha fatto il blitz all’epoca». Un incubo per i clan già all’epoca dell’operazione “Notte dei fiori di San Vito”, rinnovato dall’esecuzione dell’operazione “Insubria” che ha riportato in carcere molti degli esponenti dei clan arrestati all’epoca. Ascoltando la viva voce di questi esponenti storici delle ‘ndrine lombarde, gli inquirenti hanno captato forse la definizione più precisa del radicamento della ‘ndrangheta al Nord «La musica può cambiare – dice Chindamo – ma per il resto siamo sempre noi, non è che cambia, noi non possiamo mai cambiare». Una dichiarazione che per il gip Luerti non soltanto esprime «la rassegnata accettazione di un ineluttabile destino criminale», ma soprattutto la tragica disperazione immanente all’immobilismo di un fenomeno criminale che non solo non può, ma soprattutto non vuole, cambiare. Un fenomeno che costringe investigatori e magistratura a tornare sugli stessi passi e negli stessi luoghi in cui più volte e con notevoli risultati si è operato il contrasto alla ‘ndrangheta calabrese, da decenni ormai infiltrata ed anzi radicata in Lombardia.
a. c.