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FATA MORGANA | Gli investimenti di Romeo su Matacena

REGGIO CALABRIA Perché Paolo Romeo ha paura dell’indagine Breakfast? Perché la nuova inchiesta su Amedeo Matacena lo manda letteralmente nel pallone, inducendolo a inedite forme di prudenza? La ris…

Pubblicato il: 25/05/2016 – 10:17
FATA MORGANA | Gli investimenti di Romeo su Matacena

REGGIO CALABRIA Perché Paolo Romeo ha paura dell’indagine Breakfast? Perché la nuova inchiesta su Amedeo Matacena lo manda letteralmente nel pallone, inducendolo a inedite forme di prudenza? La risposta – suggeriscono fonti di procura – sta nel suo passato. E nei misteri che nessuna indagine è riuscita a sciogliere. 

IL CASO REGGIO Condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa con il clan De Stefano, del quale è stato identificato come consigliori, è stato in seguito più volte indagato a Reggio come a Catanzaro. Proprio dalla procura distrettuale del capoluogo calabrese, il 9 novembre 2004 arriva l’ordine di arresto per le pressioni esercitate su alcuni magistrati della Procura distrettuale di Reggio Calabria, al fine di condizionare le inchieste che stavano svolgendo sulle collusioni tra ambienti politici e mafiosi reggini. È il cosiddetto “caso Reggio”, che fra gli indagati non vede solo nomi di personaggi che oggi ritornano in associazione al legale, come quello di Nuccio Idone, ma anche – se non soprattutto – quello di Amedeo Matacena. Tra le carte di quell’indagine c’è anche la trascrizione di una conversazione intercettata il 6 novembre 2001 – nel 2014 richiamata nell’inchiesta che ha portato all’arresto di Scajola – ritenuta di particolare rilievo investigativo perché esemplificativa di un metodo. 

IL NOSTRO UOMO IN UE Romeo è ascoltato mentre chiacchiera con Carlo Colella. E – more solito – detta la linea. «Parliamoci chiaro se tu puoi costruire su Matacena l’ipotesi di una sua candidatura, parliamoci chiaro, è buona. La cosa perché …incomprensibile… no?… eppure che esce Matacena parlamentare europeo è già… è già una cosa che si entra, diciamo, i meccani… in finanziamenti… cioè uno può fare l’ira di Dio poi và… qua… con i finanziamenti pubblici, una serie di agganci… le cose perché tu, tieni conto, che poi dopo le europee ci sono le regionali». La strategia per gli inquirenti è chiara. Ai sistemi criminali che parlano per bocca di Paolo Romeo, nel 2001 servono parlamentari europei per accedere al banchetto grande dei finanziamenti pubblici. Per questo puntano su Matacena – come quasi dieci anni dopo punteranno su Scajola – che a quei sistemi di potere è legato da rapporto antico. Lo dice – in parte – la sentenza che lo ha condannato in via definitiva per concorso esterno come rappresentante istituzionale della cosca Rosmini. Ma ancor di più lo spiega la storia – criminale – della sua famiglia, che nei decenni si è sviluppata su binari convergenti con quelli che hanno guidato la carriera di Romeo. 

BINARI CONVERGENTI È nella tumultuosa Reggio degli anni Settanta che i destini di Romeo e dei Matacena si incrociano. L’allora giovane avvocato è uno dei principali attivisti del Msi guidato da Ciccio Franco, Amedeo Matacena padre invece è insieme al marchese Zerbi, uno dei finanziatori dei Moti, come – dicono i pentiti – del tentato golpe Borghese e della strage di Gioia Tauro. “Lavori” che hanno visto, con diversi ruoli, Romeo e Matacena senior lavorare insieme, con la ‘ndrangheta dei De Stefano a fare da partner. Lo racconta con dovizia di particolari il pentito Giacomo Ubaldo Lauro, che di fronte ai magistrati che istruiscono l’inchiesta “Olimpia” mette a verbale che «più volte la ‘ndrangheta fu richiesta di aiutare disegni eversivi portati avanti da ambienti dell’estrema destra parlamentare tra cui Junio Valerio Borghese. I De Stefano erano favorevoli a questo disegno e in particolare al golpe Borghese». In quell’occasione – conferma il terrorista nero Vincenzo Vinciguerra – la ‘ndrangheta avrebbe mobilitato circa 1500 uomini armati e sarebbe stata pronta all’occorrenza a metterne a disposizione altri 2000. 

LA CULLA EVERSIVA Stesso schema utilizzato qualche mese prima per la strage di Gioia Tauro. Lauro afferma che gli ispiratori della strage erano da cercare negli ambienti di Avanguardia nazionale e del “Comitato d’azione per Reggio capoluogo”. Accusa Renato Marino, Carmine Dominici, Vito Silverini, Vincenzo Caracciolo e Giovanni Moro, di essere stati «il braccio armato che metteva le bombe e faceva azioni di guerriglia» per conto del “Comitato”, diretto da Ciccio Franco, consigliere comunale missino e sindacalista Cisnal dei ferrovieri, divenuto rapidamente la figura più rappresentativa della rivolta, insieme all’ex senatore Renato Meduri, al professor Angelo Calafiore, all’avvocato Paolo Romeo, all’epoca in Avanguardia nazionale,  a Benito Sembianza e al marcheser nero Felice Genoese Zerbi. Tra i finanziatori indica il «commendatore Mauro, quello del caffè», e l’imprenditore «Amedeo Matacena, quello dei traghetti», passato alla storia anche come ispiratore del primo progetto del ponte sullo Stretto. Un’opera – notavano i magistrati di Olimpia – che ha sempre solleticato gli appetiti e fatto convergere le strategie dei clan. 

ATTENTATI CASH «Davano i soldi – testimonia Lauro – per le azioni criminali, per la ricerca delle armi e dell’esplosivo». In quegli anni, il numero degli attentati è impressionante, da non trovare precedenti nell’Italia del dopoguerra. Agli atti del Ministero degli interni, tra il 20 luglio 1970 e il 21 ottobre 1972, risultarono alla fine quarantaquattro gravi episodi dinamitardi, di cui ben ventiquattro a tralicci, rotaie e stazioni ferroviarie. Nessuno dei personaggi citati dal pentito – pur ritenuto attendibile dagli inquirenti – è stato condannato. L’inchiesta che ne porterà molti di fronte a un Tribunale si concluderà per tutti con un’assoluzione tombale. 

CAMBI DI CASACCA Ma il tandem Matacena-Romeo negli anni si ripropone. All’inizio degli anni Ottanta Romeo sveste la casacca nera missina per riciclarsi nel comodo centrosinistra del Psdi, diventa assessore comunale alle Finanze e all’Urbanistica, quindi viene catapultato in Parlamento con la bellezza di 15 mila voti, anche grazie – dicono le cronache del tempo e le inchieste degli anni successivi – al prezioso endorsement dell’ex sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Valentino. Nel frattempo, il giovane Amedeo Matacena junior si fa strada nel Pli, per poi approdare a Forza Italia, grazie al generoso appoggio – afferma l’inchiesta che lo ha visto condannato in via definitiva – dei clan reggini. 

ENDORSEMENT «Le contiguità, le connessoni, gli affari comuni e i rapporti intrattenuti con i Nasone di Scilla, i Gaietti di Solano e Bagnara, i Tripodoro, Carelli e Pino tra Rossano e Cosenza, i Gangemi-Piromalli e i Rugolo nella piana di Gioia Tauro, i Rosmini, Serraino, Condello a Reggio Calabria risalgono compiutamente a periodi antecedenti l’aprile del 1992, allorquando vennero tenute le elezioni per il rinnovo del parlamento; sicchè è emerso un quadro di sostegno continuo e determinante, offerto dal Matacena Amedeo, al mantenimento e consolidamento delle consorterie mafiose». Un sostegno – affermano i pentiti – su cui anche Romeo negli anni ha potuto contare.  E non a caso, spiega l’ex braccio destro di Pasquale Condello, Paolo Iannò. Su di loro si poteva contare anche come «aggiustaprocessi». 

INIZIATIVE COINCIDENTI Nonostante siano in partiti diversi – noteranno in seguito i magistrati di “Olimpia 2” e “Olimpia 3” – brillano per iniziative convergenti. Come quelle destinate a delegittimare l’allora pm di Palmi Agostino Cordova, impegnato in una delicata inchiesta sui business intorno alla centrale Enel di Gioia Tauro. Allo stesso modo, assolutamente convergenti sono in quegli anni le iniziative parlamentari, quasi tutte riguardanti la magistratura reggina. E probabilmente anche questo non è un caso, se è vero che nel corso della perquisizione dello studio di Romeo nel 2004, gli investigatori hanno rinvenuto innumerevoli bozze delle interrogazion
i e proposte di legge presentate poi da Matacena. 

OBIETTIVO: PROCURA All’epoca, hanno ipotizzato i magistrati del “caso Reggio”, Matacena e Romeo erano infatti impegnati in un progetto delicato ed eversivo: usare il giornale “Il Dibattito” del pluripregiudicato giornalista Francesco Gangemi per «ottenere notizie coperte da segreto, pronunce giudiziarie favorevoli, allontanamento di magistrati favorevoli» al fine di «neutralizzare l’attività giudiziaria contro i clan». L’èlite della ‘ndrangheta reggina in quegli anni pativa colpi pesanti. Con processi come “Olimpia” e i suoi seguiti, Croce Valanidi, Tirreno, e altre ancora, la prima Dda di Reggio Calabria aveva distribuito un numero di ergastoli e condanne mai visto prima in città, ma soprattutto si avvicinava a grandi passi verso i referenti politici, istituzionali e imprenditoriali della ‘ndrangheta militare. 

L’ALLARME La traccia stava tutta nel capo di imputazione F18 dell’inchiesta “Olimpia”, che aveva iniziato a tracciare gli addentellati massonici ed eversivi dei clan calabresi, arrivati in questo modo a contribuire alla definizione di strategie politiche ed economiche nazionali, dalle cosiddette “stragi di Stato” al pacchetto Colombo. Un pericolo, non solo per la ‘ndrangheta ma anche per i suoi referenti, che –  ipotizzavano prima i magistrati vittime degli attacchi, quindi i colleghi di Catanzaro, fra cui l’attuale sindaco di Napoli, Luigi De Magistris – hanno deciso di reagire, attaccando la magistratura. Il metodo ipotizzato era subdolo, ma efficace: utilizzare un giornale apparentemente schierato contro la criminalità organizzata per indebolire la Dda. O meglio, alcuni magistrati della Dda: l’ex coordinatore Salvatore Boemi, la mente di “”Olimpia, Enzo Macrì, il gip dello stesso processo Alberto Cisterna, i sostituti Francesco Mollace, Enzo Verzera e Roberto Pennisi. 

DOMANDE SENZA RISPOSTA Quell’inchiesta però piano piano ha perso pezzi, è stata smembrata, spogliata. Alla fine, si è risolta in un nulla di fatto che ha lasciato aperte innumerevoli domande, in primo luogo relative ai mai indagati collegamenti con i progetti politici eversivi che negli stessi anni l’allora procuratore aggiunto Roberto Scarpinato indagava a Palermo. E anche lì Paolo Romeo era indagato per il suo insostituibile ruolo da trait d’union fra sistemi criminali e politica. 

LA SFIDA Ci sono voluti più di vent’anni per arrivare all’inchiesta “Fata Morgana”, che inizia a svelare che oggi come allora Romeo ha mantenuto lo stesso vizietto di suggerire gli atti presentati da parlamentari come Scilipoti, come quelli presentati da una pletora di consiglieri regionali e provinciali. Che oggi come allora, Romeo mantiene «un’indubbia capacità d’influenza sulle dinamiche del tessuto socio-economico cittadino del noto professionista reggino». Che oggi come allora Romeo si sente re e spera per il nipote in un futuro da imperatore. Ma oggi i  magistrati della Dda di Reggio Calabria sembrano avere carte e strumenti necessari per rovesciare il suo regno e rispondere a domande e misteri che da troppi decenni non hanno risposta alcuna. 

a. c.

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