Mozzarella, salame piccante, ‘nduja e piselli. Sono questi gli ingredienti della pizza «’ndranghetista» che una pizzeria della periferia di Reggio Calabria, magari con l’intento di attrarre i clienti attraverso una facile ironia, ha deciso di inserire nel suo menù. Ad accorgersene è stato un ragazzino di 13 anni che, irritato dall’utilizzo di quell’aggettivo per indicare un piatto, ha segnalato la cosa ai suoi familiari e ha dato il via a un’ondata di indignazione che si è riversata sui social network.
Il fatto tutto sommato non è nuovo: ormai da anni si propongono i panini alla “mafiusa” e i canti di malavita – non sono solo canzonette, non si sgancia la forma dalla sostanza – di cui hanno scritto studiosi come Francesca Viscone ed Ettore Castagna. Allo stesso modo, più volte il peperoncino è stato accostato all'”eroe” criminale forte e “piccante”, mettendo così in atto un’operazione sottile che strumentalizza la cultura popolare e finisce per farla fagocitare dalla ‘ndrangheta.
Giustamente ci indigna, e non poco, quando la Calabria viene associata a ‘ndrangheta, criminalità, arretratezza, primitività. Ma, forse, come dice Benedetto Croce soffermandosi sugli stereotipi che storicamente sono stati elaborati dai settentrionali contro i meridionali, è sempre bene interrogarsi se non siano le stesse popolazioni a fornire qualche pretesto con i loro comportamenti per alimentare questi stereotipi e quasi per invalidarli.
Quello che stupisce oggi è che negli ultimi anni autori di saggi, libri, film e documentari, – naturalmente non quelli che hanno un’impostazione di denuncia e di conoscenza delle mafie – abbiano concorso e concorrano in qualche modo a costruire una Calabria che si rappresenta come orgogliosamente ‘ndranghetista. La retorica identitaria incrocia la narrazione della ‘ndrangheta. E così, piano piano, dopo aver “consegnato” alla criminalità i valori della cultura tradizionale, i riti della religiosità popolare, le musiche e i balli tradizionali, adesso perfino i prodotti tipici, che caratterizzano un’alimentazione ricca e articolata, vengono promossi facendo ricorso alla mitologia ‘ndranghetista. Non è solo folklorismo, ma il segnale che vi è un contagio diffuso attraverso cui la ‘ndrangheta si inserisce nella quotidianità sfruttando la banalizzazione e la sottovalutazione di simili episodi.
Già autori come Luigi Lombardi Satriani, Mariano Meligrana, Saverio Strati, Sharo Gambino, fino ad arrivare a studiosi e osservatori attenti come Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Enzo Ciconte, Francesco Forgione, Rocco Sciarrone, Michele Albanese, Peppe Baldessarro, Manuela Iatì, Alessia Candito, seppure con impostazioni e approcci diversi, hanno avuto modo non solo di analizzare la complessità del fenomeno, ma anche come la ‘ndrangheta abbia costruito la sua potenza di holding criminale globale e moderna utilizzando un’arcaicità e un passato che in realtà dovrebbero fare parte della memoria delle persone per bene, della gente comune, e non di chi utilizza strumentalmente valori e modelli criminali.
Certo, non bisogna nemmeno sopravvalutare il fatto, ma fa riflettere molto l’incapacità delle elite intellettuali e politiche di promuovere la Calabria, con le sue bellezze e le sue contraddizioni, lasciando margini per un’egemonia non solo economica e “politica” della ‘ndrangheta, ma anche per una sua sorta di egemonia culturale. E meno male, però, che qualche volta c’è un ragazzino a segnalarci che il re è nudo.
Quanti si offendono e si indignano contro coloro che dall’esterno sono soliti indicare vizi e problemi della Calabria, in questo caso non hanno nulla da dire? Oppure aveva ragione Olindo Malagodi quando, già nel 1905, diceva che «i calabresi nei confronti di loro stessi dicono le peggiori cose, salvo poi a risentirsi quando le stesse cose vengono dette dagli altri»?
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