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“Il vento che muove” chiude i battenti

REGGIO CALABRIA Sono le storie di Wafa, Irene, Lorena, Failina e Francesca, quelle scelte da Santo Nicito, direttore artistico del Teatro della Girandola di Reggio Calabria, per chiudere la stagione…

Pubblicato il: 07/05/2017 – 13:23
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“Il vento che muove” chiude i battenti

REGGIO CALABRIA Sono le storie di Wafa, Irene, Lorena, Failina e Francesca, quelle scelte da Santo Nicito, direttore artistico del Teatro della Girandola di Reggio Calabria, per chiudere la stagione teatrale 2016/2017 “Il vento che muove”. Ieri sera, e con un debutto di venerdì, cinque donne sono state interpretate sul palco da un’unica attrice: Cristina Carrisi. Lo spettacolo “Prigionia: femminile singolare”, progettato dalla stessa attrice, vede la collaborazione alla drammaturgia di Aniello Nigro e Giovanna Manfredini, con la regia di Patrizia Schiavo.  
La scena è totalmente rivestita di fogli di giornale, in ogni parte della sua struttura. Perfino un grande baule, che occupa la destra del palco, è foderato all’interno e all’esterno. Chi ci accoglie per prima è Wafa, giovane donna araba che dichiara, senza filtri, l’origine della sua sofferenza. Parla all’uomo che l’ha per moglie «Devi aspettare tre anni per avere un figlio».
I piedi le bruciano e, a stento, riesce a reggersi sulle gambe. Si spoglia dell’ hijab rosso e Cristina diventa Irene, donna bulimica di 40 anni che, in lotta costante con la madre, discute dell’amore mai conosciuto fino in fondo, se non in un bacio rubato a Enrico quando aveva 16 anni. L’ossessione materna per una sua sistemazione la soffoca. Il desiderio di liberarsi e vomitare tutto l’odio è possibile identificarlo nella defecazione che l’attrice compie in scena. Si ciba compulsivamente di torta, panna e cioccolata trangugiate tra pianti e parole d’odio scagliate contro una donna che ha fatto del nero la sua seconda pelle e del lutto del marito uno status sociale. «Quale carriera rimpiangi? Io sono la tua fortuna!» è il leitmotiv che si sente ripetere Francesca, donna – zerbino di un uomo che la umilia e la disprezza nel corpo. È un oggetto, vittima di abusi mentali e fisici perpetrati da un marito che la induce a dubitare di se stessa. Con Failina si assiste a una Medea napoletana. Moglie e madre di tanti figli, riversa su questi ultimi la causa del proprio fallimento lavorativo.
Il sogno di diventare autista di autobus viene infranto in primo luogo dalla società che ritiene giusto che «i lavori degli uomini li facciano gli uomini», e poi dall’ essere madre. Soffoca, impazzisce, urla e si dispera tra le mura di un casa in cui il pollo che prende fuoco nel forno le fa perdere la ragione e le annebbia la lucidità. Lorena, vittima di bullismo per le sue forme e la sua libertà sessuale trova nell’insano gesto del suicidio la sua catarsi. Anche se diverse nelle loro sfaccettature caratteriali e contestuali, queste donna parlano la stessa lingua. Arrivano alla fine della loro esistenza, schiacciate dalla fragilità del loro stesso io: abusato, strumentalizzato, mortificato.
Sono merce, di se stesse e degli altri. Se Wafa paga la sua condizione di donna sterile a cui non è permesso dire: «Il paradiso è sotto i piedi delle madri». E diventa la prima donna kamikaze della Palestina, Failina paga l’esatto contrario. Se Irene prova ad abbandonare la madre senza alcun notevole risultato, Irene – vittima di gaslighting – finirà per liberarsi dall’oppressore. Fa storcere il naso la parola “femminicidio” coniata per le donne: «queste femmine che se ammazzate non sono vittime di omicidio, ma di femminicidio». Tutte si muovono su un tappeto di fogli di giornale riguardanti notizie provenienti da tutto il mondo.
In primo piano, sul proscenio, la storia di Sara di Pietrantonio, 22enne strangolata e data alle fiamme dall’ex fidanzato nella periferia di Roma nel maggio scorso. Ma anche trafiletti sull’eutanasia e il diritto di legittima difesa. Benché sia chiara l’intenzione registica, l’espediente non aggiunge niente a una narrazione che ben si regge in piedi così com’è. Si rischia, nei cambi narrativi e di ruoli, di far calare la continuità narrativa o spezzare un pathos che è facilmente percepibile quando ogni donna calca le scene. Ma il talento di questa giovane attrice milanese – che recita con accento arabo e in perfetto napoletano, con voce fragile e sottomessa, con una grassa e macabra risata che dal grottesco si abbandona al pianto -, regge il gioco da sola, senza che ci si possano permettere distrazioni. Parla con personaggi che non ci sono in scena: uomini e donne che vivono in stretta relazione con le protagoniste a cui dà corpo e voce. Le luci creano un efficace gioco di montaggio narrativo – parallelo supportato dalle musiche che introducono ogni storia. In chiusura, gli applausi del pubblico riconsegnano alla giovane interprete il riconoscimento del proprio talento, ma – ancor più -, parlano i volti rigati dalle lacrime. Le storie appena viste hanno colpito lì, in pieno stomaco.

 

Miriam Guinea
redazione@corrierecal.it

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