«Ricordiamo Falcone per farlo restare vivo»
Ricordare a 25 anni dalla strage di Capaci Giovanni Falcone, non deve essere un modo di “celebrarlo”. Al contrario deve significare parlare e raccontare l’uomo, la sua storia, gli insegnamenti che ci…

Ricordare a 25 anni dalla strage di Capaci Giovanni Falcone, non deve essere un modo di “celebrarlo”. Al contrario deve significare parlare e raccontare l’uomo, la sua storia, gli insegnamenti che ci ha lasciato. Finché un uomo rimane punto di riferimento, finché i suoi insegnamenti sono da guida, egli rimane vivo. Questa è la più importante vittoria contro chi ha ordinato la sua morte. I suoi nemici non sono riusciti nell’intento di “disfarsi” di un temibile avversario perché il suo esempio e la sua storia rimangono nella testa e nel cuore di tutti noi.
La domanda più importante da porci è: chi era veramente Giovanni Falcone? La risposta più bella è quella data da lui stesso in una bellissima intervista ad Attilio Bolzoni: «Io, Giovanni Falcone, sono un uomo di questo stato, ci credo nelle istituzioni».
Giovanni Falcone, prima che un eroe, un mito, ricordiamolo come uomo, un uomo che ha dedicato la sua vita alla lotta a Cosa nostra. Lui spiegava che esiste la mafia, ma la mafia è un fenomeno, lo Stato combatte contro Cosa nostra e le sue organizzazioni e la battaglia contro cosa nostra può e deve essere vinta. Lo scrisse nel libro pubblicato con Marcelle Padovani.
Da magistrato ci ha lasciato la vittoria del “metodo Falcone”: metodo fatto dalla sagacia delle indagini, dalla prudenza nell’avvicinarsi al fenomeno, che da palermitano conosceva bene, dalla diffidenza verso le congetture, dal vagliare le ipotesi con estremo rigore valutandolo suo alla “gestione dei pentiti”, valutando importantissimo quanto pericoloso a suo dire.
Giovanni Falcone è anche il primo ad aver colto la dimensione internazionale del fenomeno. Sulla sua collaborazione con gli Usa, in particolare con Rudolf Giuliani, futuro sindaco di New York e con Louis Free futuro capo dell’Fbi, la dura lezione che egli ne trae è che gli Usa avevano le leggi per combattere le organizzazioni mafiosa, loro quelle leggi non sapevano utilizzarle, lui sì e lo fece. Lui, che però sapeva utilizzarle, non aveva a disposizione quegli strumenti in Italia. Ecco che dalla sua esperienza nacque la normativa antimafia che tuttora è legislazione italiana. Falcone si trasferì al ministero della Giustizia per far diventare legge la sua esperienza.
Tanti i successi, tante le soddisfazioni sino alle condanne in Cassazione nel maxiprocesso a Cosa nostra.
Tante, anche, però, le delusioni accumulate, i fallimenti, le amarezze, i falsi amici, le invidie, le scorrettezze nei suoi confronti.
Dicevamo un uomo, un uomo costretto a vivere blindato, con lui hanno perso la vita quel 23 maggio la moglie Francesca Morvillo i poliziotti della sua scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo.
Un uomo che a Roma, nella sua esperienza ministeriale, tentava di avvertire il gusto della libertà, di sfuggire alla scorta per rifugiarsi in qualche ristorante o rubare qualche passeggiata o assaporare il piacere semplice di andare al supermercato.
Giovanni Falcone, un uomo dello Stato, ricordiamolo sempre. A Palermo quel giorno non morì un uomo solo ma uno dei più alti dirigenti dello Stato, l’uomo forse più scortato e protetto. Questo contribuì a rendere la strage di Capaci una delle più grandi sconfitte dello stato italiano. Da quel giorno, però, nacque anche una reazione popolare che rese sempre più possibile e reale la vittoria su cosa nostra e sulla mafia anche come fenomeno sociale, da combattere non solo con gli strumenti della giustizia ma soprattutto con quelli della cultura.
*deputato Fi, già sottosegretario alla Giustizia