Grande, il David calabrese: «Provo a raccontare la speranza»
CATANZARO “In nome di Dio, Clemente, Misericordioso”, in una parola “Bismillah”. Il titolo del corto con cui Alessandro Grande, 34enne regista catanzarese trapiantato a Roma, ha vinto il David di Don…


CATANZARO “In nome di Dio, Clemente, Misericordioso”, in una parola “Bismillah”. Il titolo del corto con cui Alessandro Grande, 34enne regista catanzarese trapiantato a Roma, ha vinto il David di Donatello concentra in sé lo spirito con cui migliaia e migliaia di persone, negli anni, si sono affidati al mare, a imbarcazioni insicure, a criminali pur di lasciare la propria terra d’origine perché dilaniata da guerre civili e enormi difficoltà sociali.
La storia raccontata da Grande ha trionfato tra i 265 cortometraggi in gara, di cui 60 sul tema dei migranti. Una vittoria nella vittoria, con la ciliegina sulla torta dell’unanimità della decisione da parte della giuria, indecisa sulla cinquina finale ma non sul vincitore. Insomma, i quattordici minuti di “Bismillah” hanno messo tutti d’accordo per la delicatezza del racconto, la sensibilità della sceneggiatura, l’eleganza della fotografia, la capacità espressiva di una protagonista – non professionista – di appena dieci anni. E in “Bismillah” non c’è solo una storia qualsiasi. In “Bismillah” ci sono paura e speranza, coraggio e conforto. C’è una comunità che si sostiene, c’è l’Italia che accoglie, c’è uno Stato distante ma non del tutto sordo. C’è la difficoltà della scelta tra la morte e il rischio di essere rimpatriati.
Con “Bismillah”, Alessandro Grande ha superato sé stesso e il successo, importante, ottenuto con “Margerita”, in cinquina finale ai Nastri d’Argento, e con “In My Prison”, vincitore del premio Fandango. I cinque mesi di lavoro per “Bismillah” sono valsi una statuetta che non fa altro che confermare, questa volta al grande pubblico, che Alessandro Grande è ormai una realtà consolidata nel panorama cinematografico nazionale.
Alessandro Grande, intanto complimenti per il David di Donatello. Come ha vissuto la notizia di aver vinto e ciò che ne è seguito dopo?
«Grazie per i complimenti! Diciamo che ho vissuto praticamente su una nuvola, anzi “dentro a una lavatrice” per qualche giorno. Sarei un ipocrita a dire che non sperassi di vincere nel momento in cui avevamo deciso di candidarci, ma stringere tra le mani quella statuetta è stato incredibile. Ma sono già proiettato in avanti, quello del David è insieme un traguardo importante ma anche un punto di partenza per i progetti futuri. Mi sono messo subito a lavoro per dare corpo a idee a cui tengo particolarmente e che proprio ora meritano di subire un’accelerata».
Con questo cortometraggio in pratica prosegue un ciclo: ha sempre voluto aprire una finestra sulle difficoltà, sugli ultimi, sul disagio sociale e sulla disuguaglianza, questo era un punto di arrivo naturale?
«Sì, prosegue il percorso che forse inconsciamente porto avanti: non è una cosa organizzata a tavolino, alla fine ho sempre scelto di trattare temi difficili per l’opinione pubblico. “Margerita”, ad esempio, nasce durante le manifestazioni di piazza contro i Rom. A Roma, in quel periodo, si viveva un clima davvero pesante. Con “Bismillah” mi trovo a parlare di immigrazione proprio mentre è il tema più caldo sui giornali. Ma è praticamente un caso, le idee sono nate spontaneamente e con sincerità nella mia mente. Mi sono limitato a raccontare dei fatti, cercando di rimanere a due metri di distanza da ciò che succede davanti alla macchina da presa. Era ancora più difficile non metterci del mio, mostrare i fatti per come sono, senza retorica buonista o senza populismo. È stata una prova con me stesso, ma forse sono queste tematiche che sento più mie e che quindi mi viene più facile raccontare».
Com’è nato “Bismillah”?
«È nato dopo aver letto un articolo sul giornale. in cui si raccontava la storia dei 23mila tunisini arrivati in Italia nel 2011. Di questi, 12mila di fatto non esistono. Sono considerati fantasmi nel nostro Paese. Allora sono partito dalla domanda: passata la paura del viaggio, sono poi riusciti a vivere una vita tranquilla nel Paese in cui ora vivono da clandestini, da fantasmi? In un pomeriggio solo avevo già scritto il soggetto. Poi ho approfondito la realtà dei fatti assieme a volontari e operatori del settore, oltre che a migranti che hanno affrontato questi problemi: ho scoperto che non tutti venivano rimpatriati, ma molti di essi riuscivano a trovare accoglienza vera e diritti nel nostro Paese».
Il tema dell’immigrazione o meglio della diffidenza con cui tendiamo a guardare il nostro prossimo che ha un colore di pelle o una cultura differenti da noi lo aveva già affrontato con “Margerita”. Ancora una volta, per raccontare, ha scelto il punto di vista di un giovanissimo: perché?
«Quando racconto una storia non scelgo di farlo appositamente attraverso un protagonista specifico. Solo che forse sono molto più vicino a raccontare le storie che possono conoscere meglio: siamo stati bambini e adolescenti tutti, tutti conosciamo il modo in cui un bambino o un adolescente possono vedere il mondo che li circonda. Basta ricordarsi di come eravamo bambini o adolescenti. In questo caso, poi, l’idea di mandare un messaggio con una bambina mi piaceva. Mi piaceva far sì che un messaggio di speranza venisse proprio da chi vive la vita con ingenuità nonostante i problemi, grandi, da affrontare».
L’Islam visto come un nemico, il reato di clandestinità, i continui attacchi sui mass media agli stranieri: l’Italia è un Paese in cui i migranti non sono al sicuro?
«Come qualsiasi altro Paese, anche l’Italia è sicura fino a un certo punto: finché ci saranno divari sociali e di ricchezza, la sicurezza sarà relativa. Il pregiudizio in Italia verso l’Islam è alto: non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, non si può confondere l’Islam con il terrorismo. I tanti musulmani che ho conosciuto non si riconoscono con il terrorismo, sta a noi evitare di fare confusione. Ma c’è un problema culturale: dove manca la cultura, dove c’è ignoranza, nasce il pregiudizio, nasce la paura di ciò che è diverso da noi».
Da calabrese impegnato nel raccontare le difficoltà dell’integrazione, ha mai pensato a raccontare a suo modo il “modello Riace” e la storia di Mimmo Lucano?
«Certo, sono convinto che sarebbe un soggetto di particolare interesse. In più è un tema che sento particolarmente vicino alle mie corde, è uno spunto di riflessione, è un esempio che parte proprio dalla mia terra, un esempio di cui andare orgogliosi».
A proposito di Calabria, “Bismillah” nasce anche grazie alla Film Commission calabrese.
«La Film Commission ha sposato il progetto con grande entusiasmo. Ringrazio il presidente Citrigno e mi auguro che in futuro possa sostenere ancora progetti e autori calabresi che vogliono raccontare della propria terra e portare l’immagine positiva della Calabria nel mondo. Stanno lavorando bene e il successo di questo corto ne è una testimonianza. Da questo, mi auguro possa nascere una ulteriore collaborazione per un film da girare in Calabria al quale tengo molto».
Tornerà in Calabria per festeggiare il David?
«Presto, anzi prestissimo! A fine mese tornerò a Catanzaro per stare un po’ in famiglia, festeggiare con gli amici e portare la statuetta a visitare la mia città, la mia regione, a farle conoscere i miei affetti. Magari sarà l’occasione anche per organizzare la proiezione di “Bismillah”… ».
Intanto, a proposito di proiezioni, la “prima” mondiale del cortometraggio di Alessandro Grande è programmata in Canada, al Toronto International Film Festival – Kids, dal 9 al 18 marzo prossimi. Inserito nella selezione ufficiale di uno dei più importanti festival al mondo, “Bismillah” è stato scelto anche per il programma “Educational” grazie al quale girerà le scuole canadesi.
Per vederlo in Europa, bisognerà attendere il Buff di Malmoe, in Svezia, in programma dal 19 al 24 marzo prossimi.
Alessandro Tarantino
a.tarantino@corrierecal.it