L'educazione di 'ndrangheta del pentito Canale
REGGIO CALABRIA «Mi diceva “a Sinopoli si paga per tutto. Vuoi vendere legna paghi; vuoi comprarla paghi. Vuoi comprare o vendere olio, paghi”. Mi disse esplicitamente che pagavano sia i venditori ch…

REGGIO CALABRIA «Mi diceva “a Sinopoli si paga per tutto. Vuoi vendere legna paghi; vuoi comprarla paghi. Vuoi comprare o vendere olio, paghi”. Mi disse esplicitamente che pagavano sia i venditori che gli acquirenti». Simone Canale non è mai stato a Sinopoli. Di quel pezzo di Aspromonte fra la Piana e la città ha solo sentito parlare da quello che nella ‘ndrangheta è stato il suo principale mentore, Nino Penna, feroce uomo degli Alvaro, che anche all’interno del clan era considerato «un pazzo che non guarda in faccia nessuno». Grazie a lui, dopo essere stato reclutato dai Raso e aver vissuto tutta la sua vita – criminale e non – nel biellese, è passato nell’orbita delle potenti famiglie di Sinopoli. E grazie alle sue confidenze, oggi è in grado di rivelarne progetti, affari, rapporti.
IL MENTORE «Lui mi metteva al corrente di tutto perché voleva che, uscito dal carcere, avessi le idee chiare e sapessi con chi avevo a che fare. Lui era la mente e io sarei stato il suo “braccio”. Mi diceva “fidati ciecamente, anche se ti dico fai un omicidio. Io ci sarò sempre e so cosa ti faccio fare». Un patto con il diavolo che Canale, in un primo momento ha accettato senza remore, anche grazie al rapporto che si era instaurato con il suo mentore. «Penna Antonino credo mi volesse realmente bene – spiega il pentito ai pm – tanto che ciò che riceveva in carcere dai parenti lo divideva con me e la spesa la pagava solo lui». Vita randagia alle spalle, una storia di abusi e famiglia rotta, Simone Canale cercava una casa. E l’ha trovata nella ‘ndrangheta.
EDUCAZIONE DI ‘NDRANGHETA «Per farmi capire mi disse “tu qualunque cosa fai la devi dire a noi. Tu non sarai mai solo. Io non lo permetterò mai. Ma se vai con una zoccola lo dobbiamo sapere, perché dobbiamo sapere se prendi una pallottola». E il rischio – lo avevano avvertito gli altri affiliati con cui in carcere nel tempo era venuto in contatto – c’era. Ed era molto concreto. «Una sera – racconta al pm Giulia Pantano che lo interroga – Rocco Corica mi disse “guarda che Sinopoli non è Biella. A Sinopoli dopo che ammazzi i tre-quattro che ti hanno detto, ti ammazzano”».
FUTURO PROGRAMMATO Ma all’epoca, a lui non importava. Per lui Penna aveva un progetto e a lui stava bene così. «Appena scarcerato, secondo le indicazioni di Penna Antonino, io avrei dovuto iniziare a frequentare Sinopoli fingendo di essere in pratica un imprenditore. All’epoca ero peraltro titolare della ditta “CS Agraria di Canale Simone Commercio Legnami e Allevamento Bestiame”». Ma quella – spiega – sarebbe stata solo una copertura. «In pratica il mio lavoro e l’eventuale falsa fatturazione mi serviva per giustificare agli occhi delle Forze dell’Ordine ove fossi incappato in controlli, la mia presenza in primis in Calabria e poi il fatto che potessi avere disponibilità di danaro in realtà illecito».
PROGETTI NAZIONALI In Calabria, era stabilito, il pentito avrebbe dovuto firmare diversi omicidi, mettersi a disposizione di Penna, mentre al Nord avrebbe dovuto aiutare il suo mentore a costruire un comodo rifugio per i latitanti del clan. «Penna voleva creare un’articolazione a Biella di ‘ndrangheta “legata” alla “casa madre” di Sinopoli. Voleva utilizzare una cascina (io ne ho diverse, ancorchè non intestate a me e dare supporto ai latitanti)».
DUEMILA AFFILIATI E AGGANCI ISTITUZIONALI Per Canale, il destino era segnato. Sarebbe stato uno dei tanti soldati del clan e Penna – rivela il pentito – «mi disse che gli affiliati agli Alvaro sono 2000 uomini circa». Ed evidentemente anche affari sufficienti per poterli gestire. «Nino Penna mi ripeteva che la cosca Alvaro aveva milioni di euro investiti in immobili». Quello degli Alvaro – ha capito il pentito in mesi e mesi di confidenze che oggi sta rivelando – è un clan storico, ramificato, potente, di cui ha imparato a conoscere storia e alleanze. «Da quello che ho compreso, Antonio e Cosimo Alvaro, figli di Micu u scagghiuni, avevano interessenze a Reggio Calabria e vi era un’alleanza tra i Tegano e gli Alvaro. Nino Penna mi disse che Micu u scagghiuni fu “garante” della pax mafiosa a Reggio durante la guerra di mafia» rivela al magistrato, forse senza neanche comprendere a pieno quanto determinante sia stato quel passaggio per la ‘ndrangheta dell’intera provincia. Ma la pericolosità degli Alvaro l’ha intuita. E forse per questo ha deciso di tirarsi fuori.
DESTINO DI SOLDATO «Quando sono stato affiliato agli Alvaro ho capito che non sarei mai più uscito dalla ‘ndrangheta perché non me lo avrebbero mai consentito. Gli Alvaro sono la famiglia mafiosa più potente, più diramata a livello nazionale e internazionale e fra le più efferate, avendo anche agganci istituzionali e con la mafia palermitana. Quando Penna Antonino dentro il carcere mi impose di eseguire ordini all’interno del carcere, capii che non ne sarei più uscito e che sarei rimasto suo “soldato” anche se fossi stato scarcerato».
LA LEGGE DELL’ASPROMONTE Anche la sua vita privata avrebbe dovuto conformarsi alle regole del clan. «Mi ingiunse pure di lasciare Nicoletta Luisiani, all’epoca mia fidanzata, solo perché è stata coniugata due volte. Nella ‘ndrangheta – spiega – non è concesso ad un affiliato stare con donne coniugate, almeno negli Alvaro a Sinopoli». Espressione della vecchia ‘ndrangheta tradizionale, tanto spregiudicato in rapporti e affari, quanto formalmente legalo a vecchie regole, il clan Alvaro – spiega il pentito – quanto meno per i suoi affiliati osserva quella Penna definiva la “legge dell’Aspromonte”.
QUESTIONE DI REGOLE «Penna mi disse anche che nelle famiglie mafiose le donne mangiano separatamente dal marito e mangiano finanche gli “avanzi”. Insomma mangia prima l’uomo di ndrangheta e dopo la moglie. Almeno questa è l’usanza nelle vecchie famiglie di ndrangheta». Regole e formalità che per i vertici dei clan e le famiglie d’élite della ‘ndrangheta sono sempre state opzionali, ma nel tempo hanno contribuito a tessere quel tessuto di regole che ha tenuto imbrigliate generazioni e generazioni di affiliati, gregari e colonnelli, tutti devoti a leggi che – hanno dimostrato le inchieste – i loro stessi vertici ignorano.
PROMESSA O MINACCIA? Ma a Canale probabilmente quel mondo ha fatto paura. Nel tempo ha capito che l’affiliazione agli Alvaro sarebbe stata una condanna a morte. «Il 4 aprile 2014, Penna Antonino venne trasferito dal carcere di Biella e lui mi disse, al momento del saluto, “non ti lascerò mai solo”, alludendo all’indissolubilità rapporto ndranghetistico e di fratellanza che si era instaurato tra noi». Una frase che nel tempo, da promessa ha iniziato a sembrare una minaccia, se non una condanna a Canale, che per questo non solo ha deciso di pentirsi, ma anche di tagliare ogni rapporto con il mondo carcerario e persino con gli altri collaboratori.
ISOLAMENTO «Come collaboratore – mette a verbale – sono sempre stato in regime di isolamento e anche dopo la chiusura del termine di 180 giorni, su mia richiesta, sono stato allocato in regime di isolamento, ritenuto da me l’unico modo per interrompere i rapporti con i detenuti. Passo il mio tempo a leggere in cella, a studiare e a scrivere missive alle persone che sono importanti nella mia vita». Lo confermano anche i documenti del carcere, incluso quel provvedimento del magistrato di sorveglianza, in cui – sottolinea – «vengo descritto come “asociale” proprio per la mia tendenza a stare da solo». A praticare una cesura con la vita precedente che pretende di essere netta.
a. c.