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“Il signor dopodomani”, in scena lo sproloquio di un condannato a vivere

A Villa San Giovanni l’opera di Domenico Loddo, interpretata da Stefano Cutrupi, è stata scelta a chiusura della stagione teatrale 2017/2018. La rappresentazione narra di un amore finito, ferito e …

Pubblicato il: 14/05/2018 – 11:53
“Il signor dopodomani”, in scena lo sproloquio di un condannato a vivere

VILLA SAN GIOVANNI «Un nido. Questo è rimasto di te. Un nido intrecciato di parole. Parole false, che ancora oggi mi spinano la memoria, sanguinandola. Ci vediamo dopodomani, mi dicesti. Al solito posto. Alla stessa ora. Ci parleremo. Fin dentro le viscere. Tra di noi tornerà tutto come prima. Però, se non vieni, non mi rivedrai più!. Non arrivasti mai. Ed io rimasi li, da solo, ad aspettarti per sempre». L’attore (nella foto di Pietro Morello) in scena indossa un frac con papillon. L’abito è sgualcito e largo. Porta con sé un’audiocassetta che estrae dalla tasca. Poco prima aveva completato la scarna scenografia con un coltello e una rosa rossa. A chiusura della stagione teatrale 2017/2018 il Teatro Primo di Villa San Giovanni, sceglie “Il Signor Dopodomani” (L’indicibile sproloquio di un condannato a vivere), di Domenico Loddo, interpretato da Stefano Cutrupi qui diretto da Roberto Bonaventura. Lo spettacolo – una produzione Teatro dei 3 Mestieri – è andato in scena domenica pomeriggio con una prima di sabato sera.
«Ciao, Ada. Da quanto tempo, non pronunciavo il tuo nome», inserisce nello stereo l’audiocassetta e ascolta una registrazione fattagli anni prima. Su quel nastro sono incisi rumori, canzoni e voce di un amore ormai finito (la voce registrata è di Cristiana Nicolò). Partendo da “Vecchio frac” di Domenico Modugno, “Il Signor Dopodomani”, parla di un amore finito, ferito e tradito.
«Una storia durata un’eternità di tre anni», concluso per amore di un’altra donna, Cristina. Ada, amore struggente diventa «palindromo fedifrago e strafottente». Qui si consuma una lenta e reiterata vendetta, ma il male che si compie lo si subisce in prima persona. Si cerca la catarsi per quel dolore che non accenna ad andare via; dolore che vive nella mente del protagonista cingendogli le catene della propria dipendenza. Si registra il proprio testamento, ma si è soli nell’ombra di se stessi, in mezzo ad altrettante ombre infelici. Ci si libera nella follia in un gesto estremo, ma non si è liberi mai davvero.
Le parole di Loddo sono claustrofobiche, fagocitanti, serrate; scorrono di getto e non conoscono sosta. Non si fa in tempo ad ascoltarle, recepirle e farle proprie che subito arrivano le altre, altrettanto claustrofobiche, fagocitanti, serrate. Si snodano e vivono su giochi di parole che toccano la fisica, la matematica, la filosofia, e citano Calvino, Ibsen, Brecht e se stesso, perché questo è un testo fortemente autobiografico. E dicono tanto, e portano con sé la natura di un testo ossessionato dal male di vivere. Creano raccordi che permettono alla storia di avanzare, mostrarsi e consumarsi. Un testo così intenso non potrebbe vivere senza la bravura dell’attore che gli dà corpo e voce: Stefano Cutrupi. Attento. Presente. Non ci sono sbavature nel suo lavoro. L’intensità della parole le trasmette a un corpo che vibra carico di tormento. Alterna i ritmi rapidi del testo a momenti in cui le pause che abitano il microfono permettono alla vera emotività di emergere. I sospiri donano alla pièce quella tregua narrativa necessaria ad accogliere tutta la carica affettiva che questo lavoro porta con sé, ed è lì che ci si commuove.
Nella regia di Roberto Bonaventura, la memoria fa capolino nei cambi luce. Il passato vive attraverso i due microfoni presenti in scena, entrambi posizionati davanti alle due casse che – assieme a due grandi tappeti – costituiscono la magra scenografia. Uno spazio quasi onirico, non riconducibile a un preciso luogo. Potremmo essere ovunque e in nessun posto.
La penna di Domenico Loddo è come un fendente che prima di affondare il colpo vibra, sfiora, accarezza il pubblico. Ma è lì presente, nell’aria; in attesa della conclusione che, come la sua scrittura vuole, non arriva mai. Le sue sono storie cicliche, con un inizio e un epilogo aperto, catartico ma mai concluso. Storie che si ripetono e ripetono e vivono oltre: oltre il sipario, oltre l’interpretazione, oltre gli applausi. Restano addosso. Emozioni forti che si incollano al vissuto di ognuno di noi, perché ognuno di noi ha quel “se avessi” o quel “ma” che vive con rimpianto e nostalgia. Quel «domani» pronunciato e mai ascoltato, che ha cambiato le nostre vite per sempre.

Miriam Guinea
redazione@corrierecal.it

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