Cinquantacinque anni, medico e scrittore, Vincenzo Carrozza oggi è uno dei chirurghi della missione Onu in Mali, dopo una lunga permanenza in forza alla Kfor, la missione Nato in Kosovo. Originario di Locri, figlio di Pepè Carrozza, “uomo di rispetto” considerato vicino ai clan, 30 anni fa ha deciso di tagliare definitivamente i ponti con quell’ambiente e ha scelto la “missione” di medico. Ha dato alle stampe diversi libri fra cui ‘A famigghia e “Polvere di stelle”, uscito per i tipi di Bookabook. Oggi pubblichiamo la prima parte del suo “diario di guerra” dal Mali.
Timboktou è parte del sole di metallo fuso che la domina a mezzogiorno. Una palla d’argento liquido, sospeso su un paesaggio di mattoni rossi, che fagocita, sciogliendo, ogni cosa e pietre, palme, case, lucertole arcobaleno evaporano, divenendo un mondo di canicola, ardente. Pochi bambini, e qualche donna, osano sfidare il sole allo zenit. Sono figure evanescenti, illusioni della mente in mezzo ad arbusti polverosi.
La Timboktou millenaria, la città santa, grande porta meridionale del Sahara, fondata da Suleiman, regina del sale, delle pietre preziose, dell’avorio e di antichi papiri più preziosi dell’oro, ormai in gran parte dispersi, venduti a pochi franchi per placare fame e sete di quello che fu un popolo di monaci amanuensi, è oltre i vetri blindati della colonna militare che porta me, e gli altri membri dello staff chirurgico, al campo Onu della missione Minusma. I bambini si fanno vicini e chiedono caramelle o spiccioli, e le piccole dita si incollano ai vetri, davanti ai nostri occhi occidentali. Percorriamo una carovaniera di sabbia rossa che segue le anse del fiume Niger. La percorriamo a passo d’uomo come la percorrono le greggi di qualche pastore nomade e i trafficanti di vite umane, di armi, di droga, di notte, quando scema la vampa liquida del sole. Qua e là, accanto al fiume, spruzzi di verde sopravvivono, chissà come, ai 50 gradi fissi di questa stagione. Qualche albero di mango e pochi sicomori danno sfoggio della loro altera bellezza tra il fango secco, sulle sponde del fiume. Dopo qualche chilometro, e diversi controlli di sicurezza, entriamo nel super campo Onu. In questo periodo, dice il capitano dell’esercito svedese, che comanda la colonna militare, la crema solare ad alta protezione e gli occhiali da sole sono consigliati se non volete ustionarvi e perdere la vista. È toccato alle forze armate svedesi recuperarci da una distante base elicotteri, non è stato possibile atterrare all’aeroporto della città, che adesso serve solo la base Minusma, perché bombardato qualche giorno prima del nostro arrivo da forze ostili. Qui intorno, ci spiegherà a breve un maggiore dei marines americani, si muovono diversi gruppi armati: Tuareg di Asnasr Dine, stato islamico, movimento per l’unicità e la Jihad, e altri piccoli gruppi che si aggregano e si disgregano secondo le necessità dei loro traffici. Questa zona, continua a spiegarci il militare, è strategica per il passaggio di armi, esseri umani, droga e per il controllo delle rotte del contrabbando di petrolio e metalli preziosi.
Il Mali è il cuore dell’africa sub-Sahariana, posto tra Mauritania, Burkina Faso, Algeria, Niger, Costa d’Avorio, Guinea, è al centro di tutti i traffici illegali che dal sud dell’africa si muovono verso nord, fino alle sponde del mare Mediterraneo dove comincia a sentirsi il respiro dell’Europa. Un ufficiale nigeriano ci dice che Timboktou ha circa 50mila abitanti ma un solo ospedale base, senza alcuna specialità, forse con un solo pediatra. Ci spiega che prima della guerra in Libia, Gheddafi era stato un paio di volte nella città santa, aveva finanziato la costruzione di strade e di un albergo, voleva far tornare centrale e viva Timboktou, ma dopo la sua morte tutto è finito, la città ha continuato a sgretolarsi sotto i colpi dei proiettili e delle mazze degli Jihadist che arrivano all’improvviso e distruggono scientificamente moschee e luoghi santi, simboli occidentali e islamici insieme. Per loro non c’è differenza, sono iconoclasti. Nel campo Onu ogni cosa è ordinata secondo criteri militari: le tende in cui siamo alloggiati, il piccolo e il grande spaccio, l’ospedale da campo. Tutto quello che contiene essere umani, compresi i centri comando, mensa e ricreazione sono circondati da gabbioni due metri per due, pieni di sabbia e pietre. Nel super campo sono presenti tutte le nazionalità: americani, francesi, svedesi, nigeriani, maliani, costarichegni.
Sistemate le nostre cose, prendiamo un thè e facciamo le prime conoscenze. Mohamed ha diciotto anni ed è uno dei lavoratori civili del campo, si occupa della lavanderia, parla un buon francese e mi chiede dell’Italia, di com’è l’Occidente. Vuole sapere se davvero è come si vede in Tv, se davvero le strade sono così grandi e pulite, i palazzi alti, se c’è tutto quel verde, se la gente è ricca e felice. Senza lasciarmi rispondere dice che pensa di partire, di attraversare il Sahara, ma ancora non può, non ha i soldi giusti. Non sono ancora abbastanza dollari per affrontare il viaggio, ripete. Gli chiedo se lui è felice qui, con il lavoro che fa nel campo. Meglio che andare dietro alle capre, meglio di niente mi risponde, non è facile essere felici con questo caldo, col niente attorno, rotea gli occhi per sottolineare il niente attorno. Amedh ascolta e scuote la testa. Ha I capelli bianchi. Ha la mia età Amedh, è uno dei responsabili della mensa, da giovane ha lavorato a Marsiglia come cuoco racconta, poi è tornato a casa per farsi una famiglia, per sposare la ragazza che amava. Beve un sorso di thè e si rivolge direttamente a Mohamed: noi moriremo tutti, questo è il nostro destino, sussurra rassegnato. Lo guardo e gli chiedo perchè dice così? risponde: io sono di Kabara, come mio padre e mio nonno prima di me. Noi navigavamo il fiume portando gente e merci, ci bastava per vivere, ma adesso non si può più fare. Adesso ci sono gruppi di fanatici armati che arrivano e controllano quello che fai, e se non va bene ti ammazzano sul posto e ti lasciano al sole per i cani e i serpenti. Kabara ha paura, negli ultimi anni si è svuotata, anche mio fratello è partito lo scorso anno con tutta la sua famiglia. Una mattina hanno raccolto le loro cose e sono partiti, da allora non ho notizie. Doveva arrivare in Francia dove ho un altro fratello, ma non è mai arrivato. Forse il deserto ha ingoiato lui e la sua famiglia, forse il mare, forse il sole. Non c’è pietà dice, non c’è più pietà per nessuno ripete. Qui i Jihadist, là il mare e il Sahara, non sai cosa scegliere, una cosa vale l’altra, tanto tutte e tre ti uccidono. Continua a scuotere la testa. È un attimo, suona l’allarme di attacco al campo.
È un suono che si abbatte secco e ti scuote come un pugno in faccia. Ci sdraiamo a terra come ci hanno insegnato nella prima esercitazione, pronti a schizzare nei bunker. Il mio è il numero due, attrezzato per il trattamento chirurgico dei feriti. Termina l’urlo animale della sirena e mi precipito nel bunker. Ci contiamo. Quelli dello staff chirurgico ci siamo, aspettiamo notizie e pazienti. È stato un attacco al campo con mortai e razzi Rpg e parecchie raffiche di mitragliatrice, ci dice un soldato svedese biondissimo che arriva trafelato. È giovane, troppo giovane e sudato, gli si legge negli occhi qualcosa che non è solo paura, è incredulità, è preoccupazione di perdere qualcosa di prezioso che hai appena cominciato ad assaporare. Il direttore del campo arriva subito dopo con il suo giubbotto antiproiettile e il fiatone, ci comunica che arriveranno tre pazienti, tre soldati del Mali feriti nell’attacco. Noi siamo pronti.
Arrivano sulle barelle, senza un lamento. Sono stati colpiti da schegge di granate e da proietili 7,62 che hanno spezzato ossa, arterie e mangiato letteralmente la carne che hanno attraversato. Tutte e tre hanno l’età dei miei figli: 19, 18, 20 anni. Mi guardano con occhi sgranati, la paura non ha nazionalità e colore, la morte neanche, ti viene da pensare. Be quite, guys, all it’s ok, gli ripeto come un mantra mentre li visito. Cominciamo a fare il nostro lavoro di chirurghi, quello per cui siamo arrivati fin qua. Ricostruiamo arterie, aggiustiamo ossa, dove possiamo, e ripariamo muscoli, organi, pelle. Uno di loro ha capelli ricci e neri, di un nero virginale, perderà una gamba. Mi chiede e glielo dico. Non vorrei, ma non posso non dirglielo e allora volge lo sguardo verso un luogo lontano, che io immagino. Io seguo, sono lì, nello stesso luogo dove è lui, solo per un attimo: in questo luogo della mente c’è solo lui di appena 19 anni e una gamba in meno, senza più la possibilità di essere quello che imaginava di essere solo un giorno prima. Ha davanti una vita da reinventarsi, al ribasso, con meno sogni, con meno possibilità.
Operiamo fino al mattino.
Ho smesso di fumare da anni, ma adesso mi verrebbe voglia di sedermi fuori dal bunker e tirare profondo da una gauloise che mi offre un soldato più stanco di me. Resisto, non fumo, ma mi siedo lo stesso ad aspettare l’alba che tarda. Da nord, al primo chiarore, si vede una bolla amaranto che sorprende il cielo. La bolla avanza e cresce. Si fa grigia ai bordi e rosa acceso al centro, come ci fosse un fuoco caldo dentro, mentre comincia a soffiare, a folate, un vento tiepido che si fa sempre più forte e carico di colore che adesso è rosso mattone e ricopre ogni cosa. Torno nel bunker, i soldati sono rilassati, qualcuno si toglie l’elmetto azzurro delle Nazioni Unite, qualcuno posa a terra il fucile mitragliatore e il giubotto antiproiettili. Fumano e bevono caffè nero, scherzano tra loro. È l’harmattan, mi dice un soldato francese, sorridendo, oggi non ci saranno attacchi, basta lui, conclude compiaciuto. Si, basta L’harmattan, il vento del Mali che oscura il sole e la luna, che copre uomini e animali, alberi e tende. Che nasconde la guerra, la paura e la fatica col suo manto rosso mattone. Oggi il padrone di ogni cosa è lui. Ci stendiamo sfiniti sulle barelle libere nel corridoio. Guardo il soffitto e chiudo gli occhi con il vento che arriva alle mie orecchie come un lontano canto del deserto. Mi scuote il mio collega, vieni, andiamo a mangiare, è ora, mi dice. Ho dormito tre ore, ma sembra sia passato un giorno intero. Fuori il sole ha ripreso a sciogliere le cose, a rendere evanescente ogni essere animato. La polvere sottile è ovunque, nelle tende, nei denti, fra i capelli. Il tempo di una doccia e si riprende il lavoro: sempre on duty qui.
Vincenzo Carrozza
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