di Alessia Truzzolillo
CATANZARO La cosca degli “italiani” e quella degli zingari si erano confederate, un patto stretto per dividersi il territorio e le attività illecite. Una morsa aggressiva e violenta che stringeva la città di Cosenza e mordeva al collo imprenditori e commercianti. Omicidio, estorsioni, usura, spaccio di droga, detenzione di armi. La bacinella comune, necessaria per il mantenimento delle famiglie dei detenuti, doveva essere foraggiata anche a costo di passare alle maniere forti e la violenza manteneva “l’ordine”. Così gli investigatori hanno registrato casi di pestaggi e aggressioni anche in luoghi pubblici e affollati come i centri commerciali. Gli imprenditori venivano invitati a «cercare un buon amico per mettersi a posto». I picciotti prima di uscire con la fidanzata valutavano quale pistola portarsi dietro, neanche fosse un orologio. Gli “amici di Cosenza” chiedevano anche 500 euro al mese di pizzo alle attività commerciali. Un pusher è stato gambizzato perché aveva tentato di spacciare senza coordinarsi con la consorteria. È questo il panorama disvelato dall’indagine “Testa del serpente” che venerdì ha portato al fermo di 18 persone a Cosenza accusate di appartenere alla cosca Lanzino-Ruà-Patitucci e a quella dei cosiddetti Zingari, costituita da soggetti di etnia rom ormai radicati sul territorio cosentino e costituiti in clan autonomo (qui la notizia).
«La collettività può continuare a credere in noi, oggi le forze dell’ordine hanno lavorato come un unico corpo, un’unica polizia giudiziaria coordinata da un’unica Procura», ha detto il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri che ha vergato il fermo insieme al magistrato Camillo Falvo che presto andrà a dirigere la Procura di Vibo Valentia . Un dato emerso è stata l’assenza di latitanti, nessuno è sfuggito al fermo come già accaduto in passato. «Sono state azzerate le fughe di notizie», ha affermato Gratteri a sottolineare il lavoro compatto e fedele condotto da Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza. Un dato plaudito anche dal generale Fabio Contini, comandante regionale delle fiamme gialle e dal generale Alessandro Barbera, dirigente dello Scico. «In Calabria – ha detto Contini – stiamo investendo molto per estirpare la malapianta». «C’è piena consapevolezza che in Calabria le cose devono cambiare», ha aggiunto Barbera. «Un’azione propulsiva messa in atto dal procuratore Gratteri», ha affermato il comandante del Gico di Catanzaro, Carmine Virno.
OMICIDIO LUCA BRUNI L’indagine contempla anche l’omicidio di Luca Bruni, reggente dell’omonima cosca ucciso nel 2012 e seppellito in un campo nel Comune di Castrolibero dove i poveri resti vennero ritrovati nel 2014. La Squadra Mobile di Cosenza ha ricostruito il coinvolgimento di Luigi e Marco Abbruzzese, implicati anche nell’occultamento del cadavere, come ha spiegato il dirigente della Squadra Mobile Fabio Catalano. Luca Bruni cercava di imporre il proprio clan nelle attività illecite cosentine ma era stato attirato in una trappola e freddato con un colpo alla testa. Tale era la pervasività della cosca che, ha raccontato Catalano, «persone cosiddette per bene si erano rivolte al clan per far estromettere un cittadino dall’acquisto di un terreno».
Reggente della consorteria Lanzino-Ruà-Patitucci, ha spiegato il maggiore Giuseppe Sacco, comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri di Cosenza, era Roberto Porcaro che teneva il polso delle estorsioni ma anche della detenzione delle armi. «Le estorsioni erano diffuse a macchia d’olio su tutta Cosenza, un modus operandi per mantenere il controllo del territorio e per infiltrarsi nelle attività economiche della città, oltre che per alimentare la bacinella comune», ha detto il procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla il quale ha riportato il dato positivo della collaborazione di diversi imprenditori che hanno ammesso le estorsioni subite e dimostrato fiducia nella giustizia.
STANCHI DI SUBIRE Come hanno rimarcato anche il comandante provinciale dei carabinieri di Cosenza, il colonnello Piero Sutera, e il comandante del Nucleo Operatvo, tenente colonnello Raffaele Giovinazzo, le estorsioni stavano schiacciando il capoluogo bruzio non solo con pressanti richieste di denaro – anche 500 euro al mese – ma attraverso la violenza fatta di aggressioni (tre registrate in un solo mese), il ritrovamento di bottiglie piene di benzina, proiettili davanti alle saracinesche dei negozi e telefonate minatorie che partivano dalle cabine telefoniche. Gennaro Pino, Il Nucleo speciale della polizia valutaria di Reggio Calabria, guidato dal tenente colonnello Gennaro Pino, ha ricostruito interamente tre episodi di usura ad un ristoratore, ad una impresa di lavorazione del legno e a un’impresa produttrice di combustibile per riscaldamento. Stanchi di subire gli imprenditori hanno cominciato a collaborare, ad ammettere gli abusi. «La collettività può continuare a credere in noi», dice il procuratore Gratteri. I dati dimostrano che i calabresi stanno cominciando ad affidarsi. «Questa settimana 300 persone, usurati, estorti, hanno chiesto di parlare con me», racconta il procuratore che aggiungerà un appuntamento in più a quelli previsti in calendario. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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