di Francesco Donnici
VIBO VALENTIA «Loro non si rendono conto che se c’è uno come lui non succede niente e la gente può stare tranquilla. (…) loro non hanno capito niente…avete capito? Perché loro vogliono le guerre. Che sono loro che mettono le guerre… la polizia, la magistratura, tutti loro». Queste sono frasi tratte da una delle tante intercettazioni telefoniche delle conversazioni tra Giovanni Giamborino, fedelissimo di Luigi Mancuso, e l’avvocato Giancarlo Pittelli. E questa sorta di eloquio, Giamborino la dedica proprio allo “Zio”, sottolineando come la decisione di arrestarlo avrebbe minato i rapporti di pace che aveva ricucito sul territorio. E non solo del Vibonese.
I Mancuso controllano il territorio da decenni ma la struttura della cosca – che non è coesa ma segnata da lacerazioni per la gestione delle attività criminali – viene svelata, di fatto, con l’operazione “Dinasty”. Luigi Mancuso diventa invece figura di riferimento del clan grazie soprattutto al suo piano di “pacificazione” tra le locali della provincia che passa dal “riconoscimento” dell’autorità dei Mancuso, quindi anche dai rapporti tra la ‘ndrangheta vibonese e quella reggina.
IL «RICONOSCIMENTO» DI POLSI «È dato acquisito che “la mamma è una”». Dalle molteplici ricostruzioni offerte dai collaboratori di giustizia, emerge una struttura ‘ndranghetistica di tipo verticistico all’apice della quale sta proprio la “Mamma”, ovvero la locale di San Luca. «Tuttavia – secondo le dichiarazioni rese dal pentito Francesco Oliverio nel 2013 – ogni locale ha una propria autonomia sul territorio di competenza».
Ne esce fuori un paradosso tra rapporti di potere e controllo del territorio giustificato dalla necessità dell’esistenza di un vertice che possa «garantire il rispetto e l’uniformità delle regole su ogni territorio ed intervenire per pacificare eventuali contrasti sorti tra esponenti di famiglie ‘ndranghetistiche», lasciando però a ogni locale l’egemonia sulla zona di competenza, come fosse una sorta di struttura confederale.
Come dichiarato dal pentito Scriva, «le riunioni (della struttura centale, ndr) avvenivano durante la festa di Polsi». E proprio a Polsi, dove si elegge anno per anno il “capo Crimine” – come raccontato da Luigi Bonaventura – «la locale di Limbadi dei Mancuso era stata riconosciuta». Questo significava che «i Mancuso erano diventati la cosca più potente del Vibonese e le altre erano satelliti rispetto a loro». La rete di rapporti intessuta dai Mancuso, in particolare da Luigi, lo portano ad essere considerato oltre che «vertice della ‘ndrangheta del Vibonese, capo della società di Limbadi ed uno dei pochi che si potevano sedere al tavolo con le persone di San Luca». Evidenze, queste, emerse anche nei processi “Tirreno” e “Mafia delle tre province” dove lo stesso Luigi Mancuso viene condannato quale appartenente a consorterie diverse rispetto a quella vibonese (anche perché all’epoca dei fatti, secondo gli inquirenti, la provincia di Vibo faceva capo ai clan di Catanzaro). Mancuso, in effetti – nella ricostruzione del pentito Virgiglio – era considerato uno dei «tre punti della stella» che oltre a lui comprendono anche «Pino Piromalli a Gioia Tauro e Nino Testuni, ossia i Pesce a Rosarno».
I RAPPORTI COI PIROMALLI «Nella zona di Vibo Valentia ci sono le stesse strutture di ‘ndrangheta del Reggino». Scriva racconta di conoscere personalmente i Mancuso che lo avrebbero ospitato a Limbadi durante la latitanza: «Luigi contava di più per via dei suoi rapporti con i Piromalli». Quegli stessi Piromalli che avrebbero consentito a Luigi Mancuso di «portare il materiale inerte per la costruzione del porto di Gioia Tauro».
Nel periodo compreso tra il 26 giugno 2014 ed il 12 agosto 2017, durante il quale Luigi Mancuso si sottrae volontariamente agli obblighi della sorveglianza speciale rendendosi irreperibile, emerge la sua volontà di continuare a relazionarsi non soltanto con i fedelissimi delle cosche della sua provincia, ma anche con quelle reggine. Il riferimento principale sono sempre i Piromalli di Gioia Tauro coi quali i Mancuso intessono rapporti che vanno oltre la “semplice” cointeressenza criminale. Questi stretti contatti erano mediati da una serie di soggetti tra cui si annoverano Gianfranco Ferrante, Emanuele La Malfa, Gaetano Molino. Da Gioia Tauro, viceversa, soggetto di riferimento era Domenico Cangemi, già condannato per associazione mafiosa e riconosciuto appartenente alla cosca “Piromalli-Molè”. Da un’altra conversazione tra Giovanni Giamborino e Alessandro Scermino emerge come, durante il periodo di detenzione di altri boss, Mancuso fosse divenuto il vertice del mandamento Tirrenico, quindi con un potere esteso anche oltre la provincia. Non a caso, l’incontro tra i due era legato alla richiesta da parte dello stesso Scermino di riscossione di un credito per cui gli serviva l’intermediazione di Luigi Mancuso. Questo, stante la provenienza dello Scermino da un territorio esterno al Vibonese, attesta il grado di potere acquisito da Mancuso fino a considerarsi – come a più riprese “decantato” da Giamborino – «il tetto del mondo»: «A Luigi non c’è bisogno che gli chiediate chi c’è a Nicotera, a Reggio o questo o altro. Lui ha il tetto del mondo: se c’è qualcuno è sempre lui il più alto di tutti». Proprio in questa circostanza, Pittelli chiede se Mancuso fosse effettivamente il numero uno in Calabria, ovvero se fosse «sopra la famiglia Pelle» che Giovanni Giamborino definisce «pisciaturi» al fine di rimarcare la superiorità di Mancuso.
NINO PESCE E LA PACE TRA I MANCUSO Secondo la ricostruzione del Ros, la scarcerazione di Luigi Mancuso nel 2012 può essere identificata come il momento di “svolta” della cosca che supera le fratture interne grazie alla sua strategia “pacifista” suffragata dal suo ruolo di “Supremo”.
La latitanza di Mancuso a Palmi apre anche alla collaborazione con un’altra “celebre” consorteria reggina. Sempre i dialoghi tra Giamborino e Pittelli, raccontano i rapporti controversi di Luigi e Giuseppe Mancuso. I dissidi, secondo le ricostruzioni offerte, erano legati al diverso “modus operandi” che faceva di Luigi “la mente” e di Giuseppe “il braccio (armato)”. Proprio questo porterà ad una scissione interna nella provincia vibonese, con due cosche Mancuso a spartirsi il territorio. La rappacificazione sarebbe avvenuta durante la celebrazione del processo “Tirreno”, a Palmi, anche grazie all’intervento di Nino Pesce, all’epoca detenuto insieme allo stesso Luigi Mancuso. Questo segna una nuova stagione di “coesione territoriale” basata sulla politica della «pacificazione».
Come racconta il pentito Bartolomeo Arena, le guerre intestine tra le locali stavano infatti indebolendo la struttura oltre che attirando l’attenzione dall’esterno. Così anche fuori dalla provincia, Mancuso interviene spesso come paciere. Esempio ne è – sempre nel racconto dei collaboratori di giustizia – l’episodio dell’estorsione ai danni della filiale della Bartolini. In quel caso, Mancuso era intervenuto personalmente «per avere un chiarimento con Giuseppe Accorinti ed evitare lo scontro con i Bellocco che già da tempo avevano premeditato quello stesso colpo».
Secondo quanto raccontato invece da Raffaele Moscato, verso la fine del 2012, nel periodo in cui «si diceva che Mancuso si fosse distaccato dal crimine della provincia di Reggio alleandosi coi crotonesi» avrebbe tentato di intavolare anche coi “piscopisani” una trattativa di pace.
I VIAGGI A SIDERNO E IL FAVORE AI DE STEFANO Ma non passa molto tempo perché riprendano i rapporti tra Mancuso e i reggini. Tra i vari si segnalano anche i Coluccio di Siderno, gli Alvaro e i Polimeno di Sinopoli. Il tramite, nonché autista dello “Zio”, era Giuseppe Rizzo, rientrato a Vibo da Milano e subito messosi a disposizione del boss.
Sono poi documentate anche una serie di riunioni tra Mancuso e i suoi fedelissimi alle quali prendevano spesso parte anche esponenti della ‘ndrine reggine. Durante gli incontri, spesso organizzati nell’abitazione di Gaetano Molino, si definivano le strategie e si mettevano sul tavolo le richieste. Come quella avanzata dai De Stefano riguardante il trasferimento di Francesco Cutrupi, direttore delle Poste, presso la Regione Calabria. Per l’evenienza, Mancuso incaricherà Giancarlo Pittelli e la sua ampia rosa di contatti, come già avvenuto per una “pratica” di interesse di Rocco Delfino e Domenico Cangemi a dimostrazione dell’ampia condivisione che tra le ‘ndrine si era instaurata su tutti i livelli così garantendo la rispettiva ascesa ed egemonia. (redazione@corrierecal.it)
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