«Smartphone e controlli a distanza. La tecnologia può aiutare la Calabria a ripartire»
Lo studio di tre docenti dell’Università “Magna Graecia” sulle sofferenze del sistema Italia davanti al Coronavirus ottiene attenzioni internazionali. Uno di loro, Pierangelo Veltri, racconta come la…
Pubblicato il: 18/04/2020 – 9:42
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di Pablo Petrasso
CATANZARO La nostra vita dopo la pandemia cambierà. È l’unica certezza che si coglie in questa fase confusa. Arriveranno nuove abitudini e un nuovo approccio alle cose. Vale anche per chi dovrà analizzare e interpretare fenomeni complessi, in cui il trattamento “classico” della salute sarà sempre più connesso alla tecnologia. All’Università di Catanzaro ci sono gruppi di ricerca che lo fanno da anni. Uno dei loro studi, firmato dai docenti Pietro Hiram Guzzi, Giuseppe Tradigo e Pierangelo Veltri, ha ottenuto l’attenzione della comunità scientifica internazionale. Prova a raccontare, attraverso l’analisi dei dati, perché il sistema sanitario è andato in crisi in aree del Paese ritenute storicamente un’eccellenza. Una ragione tra le altre, per un problema complesso: la struttura dei servizi sul territorio. In Lombardia (e non solo) accentrare i posti di terapia intensiva nelle grandi strutture hub e spoke ha complicato la gestione della crisi. Altrove – i docenti si sono confrontati con colleghi norvegesi – la distribuzione dei posti letto in piccole strutture disseminate sul territorio ha reso il problema più gestibile. «Non vogliano sconfinare dal nostro campo – ci spiega Pierangelo Veltri –, soltanto offrire un contributo all’analisi di questioni strettamente interconnesse». E, magari, anche a come la Calabria attraverserà il passaggio necessario dalla “fase 1” alla “fase 2”, perché un numero contenuto dei contagi consentirebbe sperimentazioni utili alla ripartenza e a evitare nuove ondate.
Pierangelo VeltriPerché la vostra ricerca ha attirato l’attenzione dell’Università della Florida?
«L’Università Magna Graecia di Catanzaro – Umg – è un ateneo molto stimato a livello internazionale: da noi il mondo dell’Information Comunication Technologies (Ict) si incontra quotidianamente con l’eccellenza dei nostri colleghi di area medico-clinica del dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche e degli altri dipartimenti. Da tempo abbiamo rapporti di collaborazione accademica con molte Università nel mondo ed in particolare con l’Università della Florida. Ci apprezzano per la nostra attività di ricerca in ambito bioinformatico e biomedico, grazie alla stretta collaborazione con i medici e biologi dell’ateneo. Con molti docenti dell’Università della Florida abbiamo rapporti di lavoro da tempo e si sono consolidati anche rapporti interpersonali di amicizia e reciproca stima. Penso al prof. Prosperi, un brillante collega di origini italiane, al prof. Kahveci, direttore di dipartimento, alla professoressa Zhang, ora direttore presso l’Università della Virginia e uno dei massimi esponenti di bioionformatica e biomedicina.
Giuseppe Tradigo
Con il prof. Kahveci abbiamo l’abitudine di sentirci ogni due settimane, il giovedì pomeriggio, per un continuo confronto sullo sviluppo delle tecnologie e dei sistemi informatici. All’Università della Florida tenni, ricordo nel 2016, un primo seminario presso il dipartimento di Epidemiologia sul tema dell’uso dei sistemi informativi geografici per analisi di dati clinici. Sempre nel 2016 il professor Tradigo ha lavorato lì per un anno sull’analisi di dati del tumore alla prostata e sui modelli di predizione.
Pietro Hiram Guzzi
Qualche giorno fa dalla Florida mi ha contattato il prof. Michalis, direttore del dipartimento di Informatica, interessato ad alcuni risultati da noi resi pubblici in tema di Covid 19, mi ha invitato a illustrarli. E così con i colleghi Tradigo e Guzzi abbiamo tenuto in video conferenza un seminario, cui hanno partecipato colleghi del dipartimento ma anche studenti e qualche collega dall’Italia. Voglio ricordare che molto interesse ha suscitato, presso l’uditorio dell’Università della Florida, lo studio del professor Guzzi sul comportamento del virus a livello cellulare sviluppato in collaborazione con l’Università di Bologna».
L’idea alla base del vostro studio è quella di monitorare i posti in Terapia intensiva. Quando avete intuito che il problema del Coronavirus sarebbe stato l’ospedalizzazione?
«Appena arrivate le prime notizie dalla Cina, come gruppo di Informatica biomedica abbiamo iniziato ad interessarci ai dati. Alcuni fenomeni, quali il famoso ospedale costruito in Cina in pochissimi giorni, ci hanno fatto porre l’attenzione sulla tenuta delle risorse e abbiamo iniziato a lavorare con i primi dati disponibili. Ci siamo chiesti, ad esempio, come fare a capire quale avrebbe potuto essere il fabbisogno di posti in terapia intensiva, come meglio raffrontare i dati sui posti disponibili rispetto a quelli richiesti, come poter fare previsioni usando l’andamento ormai noto dell’infezione, e monitorando anche la diffusione della malattia rispetto alle prime azioni di contenimento. Ci siamo chiesti come potevamo leggere e soprattutto predire, anche a distanza di pochi giorni, le necessità di posti in terapia intensiva. L’idea era quella di servire anche ad altri paesi. Il lavoro a dire il vero ha suscitato anche l’attenzione di colleghi delle strutture sanitarie della Norvegia, che ci hanno contattato verso la fine di marzo, così come sempre in tema di Covid-19 abbiamo ripreso alcuni contatti con colleghi di Dublino confrontandoci sulle idee. In questo contesto, la tenuta degli ospedali è stata possibile grazie al personale medico infermieristico che si è sacrificato fino, letteralmente, al sacrificio estremo per assistere i pazienti».
Dall’analisi sulle caratteristiche dell’assistenza ospedaliera in Italia che tipo di conclusioni avete tratto? Perché il sistema è andato in crisi proprio in un’area (o in più aree) del Paese nella quale la sanità è considerata un’eccellenza?
«In una società complessa e interconnessa la chiave del nostro futuro sta nella gestione delle informazioni. Sui tantissimi dati che caratterizzano il nostro mondo globale, vanno archiviati, studiati, elaborati e su di essi vanno fatte previsioni. Sistemi che possono simulare e prevedere diffusione di virus ma anche verificare l’impatto sul sistema sanitario possono esser di valido supporto. Il nostro gruppo è composto da ingegneri: ci preoccupiamo di elaborare meccanismi di gestione dei dati e delle informazioni maggiormente fruibili, tendiamo a predisporre “cruscotti di controllo” delle informazioni che se ben lette, possono aiutare nella gestione delle risorse anche finanziarie, per meglio veicolarle ed indirizzate. Facciamo un esempio fuori campo: parlando dei motori a combustione delle nostre automobili. Un motore da 1.000 cc sviluppa oggi potenze paragonabili a quelli di grosse cilindrate di qualche anno fa. Cosa è cambiato? Il sistema a combustione interna è rimasto uguale, ma la capacità di gestire migliaia di informazioni attraverso sofisticate centraline elettroniche consente di ottimizzare sempre più le performance. Ecco, noi cerchiamo di mettere insieme più dati possibili che interessino la salute e la qualità di vita, integrandoli, facendo simulazioni e predizioni. In Veneto per esempio, dove da subito hanno cercato di applicare una piattaforma di biosorveglianza per il monitoraggio e la gestione dei dati, hanno ottenuto risultati migliori in tema di Covid-19 rispetto alla Lombardia. Non basta avere eccellenti strutture ospedaliere: bisogna disporre di giuste informazioni in tempo reale, sistemi avanzati informatici di gestione veloce dei dati che contribuiscano a una più efficace governance delle strutture. Questo è un fenomeno per il quale non eravamo proprio preparati e del quale non eravamo pronti a leggere i segnali. Dovremo cambiare un po’ le nostre abitudini».
Molti osservatori segnalano che regioni nelle quali il contagio si è fermato a livelli meno allarmanti potrebbero essere aree pilota per una gestione dell’epidemia che coniughi l’approccio sanitario con quello tecnologico. Cosa si potrebbe fare in Calabria?
«La Calabria può costituire per noi ricercatori un buon esempio su cui fare sperimentazione. Noi stiamo studiando, parlo del lato bioinformatico e di informatica per la biomedicina, diverse opzioni tipo controllo della distanza minima sociale che possa esser memorizzata per verificare i comportamenti, sistemi di primo screening sanitario usando a esempio il controllo della voce (timbro, tono, frequenza del parlato, vocalizio) o utilizzando lo smartphone per misurare la capacità di ossigenazione che può dare primi segnali dello stato di salute di un individuo. Bisognerà adeguare e modificare anche i servizi di assistenza spostandosi un po’ di più verso la telemedicina e il monitoraggio a distanza, ma anche verso il controllo degli ambienti. Sempre con il supporto medico, ma senza la paura che qualcuno possa impossessarsi dei nostri dati. Così potremmo pensare di acquisire informazioni, rispettando privacy e protocolli informazioni da mettere a disposizione anche della comunità scientifica diventando un modello. Il sistema sviluppato dall’Mit di Boston, per esempio, usa i dati di movimento e li incrocia con tutti i dati resi disponibili dall’Organizzazione mondiale della sanità. C’è molto da fare».
In situazioni delicate come si sono rivelate le case di cura, si potrebbero adoperare sistemi di gestione a distanza, esistono idee in questo senso?
«Come Università della Magna Graecia – Umg – partecipiamo, in partenariato anche con aziende, a diversi progetti di ricerca finanziati anche dalla Regione su sistemi informativi a supporto della medicina: dall’analisi di dati ambientali e la loro associazione con patologie croniche, a sistemi di controllo remoto con dispositivi certificati, fino allo sviluppo di soluzioni di supporto alle bioimmagini. Una nota azienda operante nell’Ict a breve fornirà in donazione alcuni kit di controllo con pulsossimetro e misuratore di temperatura collegati a un telefonino. Si potranno usare su un piccolo insieme di pazienti. Attraverso queste soluzioni è possibile monitorare lo stato di pazienti asintomatici, monitoraggio che deve ovviamente esser affidato sempre a personale qualificato e sempre sotto controllo medico. La scelta dove partire spetta al personale competente, e soprattutto è necessario un protocollo completo di controllo dei dati, ma nell’ottica di supportare lo sforzo enorme di tutto il comparto sanitario la risposta è sì, si può pensare di partire con piccoli numeri. Di certo, se c’è una cosa che questa esperienza ci lascerà sarà un nuovo modello di lavoro e di comportamento: maggiore cura ed attenzione verso gli altri, maggiore distanza fisica e la necessità di sistemi più efficienti. Più le informazioni sono immediatamente disponibili e trattate, sicuro il miglioramento in termini di prevenzione e qualità della vita». (p.petrasso@corrierecal.it)